Da IlSole24Ore
di Rita Fatiguso, 7 giu 2016
Nel dialogo strategico ed economico Usa-Cina (l’ottavo round si è aperto ieri nella Diaoyutai Guesthouse) la parte del leone tocca all’overcapacity, specie quella dell’acciaio. Gli Stati Uniti hanno attivato nei giorni scorsi una controffensiva sull’acciaio cinese a basso costo, aprendo un’inchiesta per accertare l’entità del dumping, più che logico, quindi, il rimbalzo della questione sui tavoli economici del dialogo in corso in questi giorni a Pechino.
Ci aveva già pensato del resto domenica scorsa il segretario al Tesoro Jacob Lew a definire il problema “grave” non solo per il mondo ma anche per la Cina stessa, invitando Pechino a prendere misure più decise per favorire una crescita sana. Morale: ieri in conferenza stampa il ministro delle finanze cinese Lou Jiwei, dando conto del tavolo di lavoro bilaterale dedicato all’economia, si è mostrato particolarmente scettico sull’overcapacity.
La Cina non ama le intrusioni nelle misure di politica interna, quindi l’approccio di Lew è stato giudicato piuttosto invadente. «La metà delle aziende cinesi dell’acciaio è privata non pubblica – ha detto il ministro – quindi noi non possiamo fare molto per incidere sulle loro decisioni concrete».
Il concetto è stato ripetuto per una seconda volta quando gli è stato chiesto se si riesce a quantificare il numero degli esuberi, ad esempio, per ogni 10mila tonnellate di acciaio prodotte in meno. Lou Jiwei, come in un disco rotto, ha risposto che sui comportamenti dei privati Pechino non può fare molto. Quindi, non è possibile nemmeno sapere quanti lavoratori rimarrebbero a casa se l’output di acciaio dovesse essere tagliato in misura consistente. La cifra esatta dei licenziamenti preventivati in caso di chiusura o conversione di acciaierie è quindi sconosciuta. Circolano cifre puramente indicative, molte delle quali si rifanno al 2008, anno chiave della crisi finanziaria globale in cui milioni di cinesi persero il lavoro. Ma da allora non si è più capito cosa i vertici stanno meditando di fare, almeno per le aziende statali per le quali è stata messa in campo un'eterna riforma.
Quindi Lou Jiwei, il ministro cinese delle finanze che aveva il compito di spiegare l’esito del tavolo bilaterale con i counterparts americani ha praticamente glissato la questione. Segno che il dialogo tra Pechino e Washington è pieno di ostacoli. Lou Jiwei ha ricordato le poste in gioco del Governo per far fronte alla perdita di posti di lavoro, almeno un miliardo di renminbi, ma poi ha preferito aggirare la questione, tutt’altro che semplice da gestire.
Anche il tavolo precedente, dedicato al climate change, indirettamente è stato dominato dai costi della riconversione delle produzioni pesanti e inquinanti.
Xie Zhenhua, che non è un funzionario qualunque ma lo special representative on climate change della potente NDRC, il braccio armato del partito per le riforme, ne ha parlato come di uno sforzo enorme, in termini economici e umani. Anche quello sul climate change è un fronte importante, l’incontro con i counterparts americani è stato laborioso, perché bisogna implementare le decisioni prese, Cina e Usa sono tra i primi inquinatori al mondo. E ognuno a casa propria deve iniziare a impugnare l’accetta. C’è soprattutto da recepire l’accordo di Parigi sul clima, tutti promettono di farlo entro l’anno, ma i costi che si profilano sono tali da scoraggiare anche le economie più solide. In Cina, soprattutto, rendere le produzioni più “pulite” implicherà, ha fatto capire Xie Zhenhua, politiche lacrime e sangue.
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