di Elena Comelli, 10 giu 2019
Gli alberi sono molto efficienti ad assorbire la CO2, catturata dalla fotosintesi e immagazzinata in tronchi, rami e radici, oltre che nel terreno. Ma ce ne vogliono molti.
Per sequestrare tra 100 e 1.000 miliardi di tonnellate di CO2, come indica l’Ipcc, con un bosco di fascia temperata, bisognerebbe riforestare una superficie equivalente fino a cinquanta vole l’Italia. Una foresta di tipo tropicale, che può immagazzinare più carbonio, richiederebbe un territorio grande da 3 a 30 volte lo stivale.
Considerando i quasi 4 miliardi di ettari attualmente dedicati a foresta globalmente, bisognerebbe ampliarli di una quota compresa tra il 3,5% e il 35%. Un obiettivo molto difficile da raggiungere, per non dire impossibile, visto che al momento si sta andando nella direzione opposta: tra il 1990 e il 2015, le foreste hanno perso 130 milioni di ettari secondo la Fao.
La soluzione alternativa è quella delle bioenergie: si tratta di coprire vasti territori con alberi come il salice e il pioppo o di piante erbacee a crescita rapida, come il miscanto o il panico.
Queste biomasse vengono bruciate per produrre elettricità o calore e l'anidride carbonica da combustione viene recuperata e stoccata in formazioni geologiche profonde a terra o in mare.
Anche qui, gli ordini di grandezza fanno venire le vertigini. Secondo l’Ipcc, per contenere il riscaldamento globale a 1,5°C, bisognerebbe piantumare più di 700 milioni di ettari con queste colture tra il 2050 e il 2100. In entrambi i casi, tutti questi territori verrebbero sottratti ad altri usi, compresa la produzione di cibo, con impatti potenzialmente negativi sugli ecosistemi, sulla biodiversità e sulle risorse idriche.
Malgrado ciò, gli esperti dell’Ipcc preferiscono l’idea di uno stoccaggio “naturale” della CO2 rispetto agli altri progetti di cattura artificiale.
Queste biomasse vengono bruciate per produrre elettricità o calore e l'anidride carbonica da combustione viene recuperata e stoccata in formazioni geologiche profonde a terra o in mare.
Anche qui, gli ordini di grandezza fanno venire le vertigini. Secondo l’Ipcc, per contenere il riscaldamento globale a 1,5°C, bisognerebbe piantumare più di 700 milioni di ettari con queste colture tra il 2050 e il 2100. In entrambi i casi, tutti questi territori verrebbero sottratti ad altri usi, compresa la produzione di cibo, con impatti potenzialmente negativi sugli ecosistemi, sulla biodiversità e sulle risorse idriche.
Malgrado ciò, gli esperti dell’Ipcc preferiscono l’idea di uno stoccaggio “naturale” della CO2 rispetto agli altri progetti di cattura artificiale.
Nasce da qui l’idea di creare una “super-pianta”, in grado di fissare nel terreno molta più anidride carbonica di quanta ne avrebbe fissata naturalmente.
Un’equipe di scienziati californiani del Salk Institute for Biological Studies, guidati dalla biologa Joanne Chory, è impegnata in questo progetto, chiamato Ideal Plant Initiative. Le piante, spiegano i ricercatori, sono la scelta migliore perché attraverso la fotosintesi clorofilliana sono già in grado di assorbire l’anidride carbonica. Basterebbe trovare il modo di mettere il turbo a questo processo, rendendo i nuovi esemplari resistenti alla decomposizione (come succede ad esempio nel sughero), che è il momento in cui le piante rilasciano nell’atmosfera la CO2 assorbita. In questo modo si potrebbero trasformare tutti i campi di grano o di soia del mondo in immensi depositi di CO2.
Un’equipe di scienziati californiani del Salk Institute for Biological Studies, guidati dalla biologa Joanne Chory, è impegnata in questo progetto, chiamato Ideal Plant Initiative. Le piante, spiegano i ricercatori, sono la scelta migliore perché attraverso la fotosintesi clorofilliana sono già in grado di assorbire l’anidride carbonica. Basterebbe trovare il modo di mettere il turbo a questo processo, rendendo i nuovi esemplari resistenti alla decomposizione (come succede ad esempio nel sughero), che è il momento in cui le piante rilasciano nell’atmosfera la CO2 assorbita. In questo modo si potrebbero trasformare tutti i campi di grano o di soia del mondo in immensi depositi di CO2.
Gli studi sulla Ideal Plant sono già molto avanzati e ora si tratta di trasferire queste caratteristiche, sperimentate sull’Arabidopsis, tipico organismo modello per lo studio della biologia vegetale, alle coltivazioni più diffuse, come il grano, il mais, la soia o il cotone. Inserendo la suberina, componente essenziale del sughero, nel genoma di queste piante, in modo che sviluppino radici più lunghe e resistenti alla decomposizione, i ricercatori del Salk sperano di poter aumentare in maniera significativa la quota di CO2 assorbita che rimane nel terreno. Il bello dell’esperimento, che sta per cominciare la fase in campo aperto, è che i campi di grano o di mais già coprono buona parte dei terreni disponibili sulla Terra, quindi non ci sarebbe nemmeno bisogno di far concorrenza alle colture alimentari o di cambiare la destinazione del suolo per trasformarlo in un deposito di CO2.
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