sabato 14 aprile 2018

Un errore nell'empatia con le difficoltà altrui: il "narcisismo conversazionale"



L'autrice di "We Need To Talk" racconta cosa ha imparato aiutando (e non aiutando) un'amica che aveva subito una perdita

Celeste Headlee, Oprah.com, 9 apr 2018

Questo blog è apparso per la prima volta su HuffPost Usa ed è stato tradotto 
da Milena Sanfilippo


Getty

Qualche anno fa, una cara amica perse suo padre. 
La trovai seduta da sola su una panchina, fuori dal nostro luogo di lavoro, immobile, a fissare l'orizzonte. Era distrutta e io non sapevo cosa dirle. È facile dire la cosa sbagliata a qualcuno che sta soffrendo ed è vulnerabile. Perciò, iniziai a raccontarle di come sono cresciuta senza un padre. Le dissi che mio padre era affogato in un sottomarino quando avevo solo nove mesi e che avevo sempre pianto la sua morte, pur non avendolo mai conosciuto. Volevo farle capire che non era da sola, che anche io ero passata per un'esperienza simile e capivo cosa provava.

Ma, dopo aver ascoltato quella storia, la mia amica mi guardò e sbottò: "Ok, Celeste, hai vinto tu. Non hai mai avuto un padre, almeno io ho passato trent'anni con lui. A te è andata peggio. Immagino che non dovrei essere tanto turbata se mio padre è appena morto."

Ero sconvolta e mortificata. 
La mia reazione immediata fu quella di perorare la mia causa. "No, no, no", dissi, "non sto dicendo questo. Intendevo solo che so come ti senti". E lei rispose: "No, Celeste, non lo sai. Non hai idea di come mi sento."

Lei andò via e io rimasi là impotente, mentre la guardavo allontanarsi e mi sentivo un'idiota. Avevo deluso la mia amica. Volevo solo consolarla e, invece, l'avevo fatta sentire peggio. All'epoca, credevo ancora che mi avesse frainteso. Pensavo che fosse in un momento fragile e che mi avesse aggredito ingiustamente, quando stavo solo cercando di aiutarla.

Ma la verità è che non mi aveva frainteso affatto. Capiva quello che stava accadendo forse meglio di me. Quando iniziò a condividere le sue emozioni, mi mise a disagio. Non sapevo cosa dire, così mi affidai d'istinto a un argomento che trovavo rassicurante: me stessa.

Magari cercavo d'immedesimarmi, almeno a livello conscio, ma in realtà stavo sottraendo centralità al suo dolore e deviando l'attenzione su di me. Lei voleva parlarmi del padre, raccontarmi dell'uomo che era, perché potessi comprendere a pieno la vastità della sua perdita. Invece, le chiesi di fermarsi per un momento e ascoltare la storia della tragica morte di mio padre.

Da quel giorno, ho iniziato a far caso a tutte le volte in cui reagisco a storie di perdita e di difficoltà altrui raccontando delle mie esperienze. Mio figlio mi raccontava di essersi scontrato con un altro bambino dei Boy Scout, e io gli parlavo di una ragazza con cui avevo litigato al college. Quando una collega fu licenziata, le dissi delle mie difficoltà a trovare un lavoro dopo essere stata licenziata anni prima. Ma quando ho iniziato a notare le reazioni degli altri ai miei tentativi di entrare in empatia, mi sono resa conto che l'effetto della condivisione delle mie esperienze non era mai quello che volevo sortire. Tutto ciò di cui quelle persone avevano bisogno era che le ascoltassi e che prendessi atto di quanto stavano attraversando.

Il sociologo Charles Derber descrive questa tendenza ad inserire se stessi in una conversazione come "narcisismo conversazionale." Si tratta del desiderio d'impadronirsi di una conversazione, di parlare più dell'altro e di spostare il focus dello scambio su stessi. Spesso è sottile e inconscio. Derber scrive che il narcisismo conversazionale è "la manifestazione principale della psicologia di chi ricerca attenzioni". Avviene nelle conversazioni informali tra amici, parenti e colleghi. L'abbondanza di letteratura popolare sull'ascolto e sul galateo da riservare a chi parla costantemente di se stesso lascia intendere quanto ciò sia diffuso nella vita di tutti i giorni". Derber descrive due tipologie di risposta nelle conversazioni: una risposta deviante e una risposta di supporto. Con la prima si sposta l'attenzione verso se stessi, mentre la seconda supporta le osservazioni dell'altra persona. Ecco una semplice illustrazione:

Risposta deviante
  • Mary: Sono così occupata
  • Tim: Anche io. Completamente oberato
Risposta di supporto
  • Mary: Sono così occupata
  • Tim: perché? Cosa devi fare?

Ecco un altro esempio

Risposta deviante:
  • Karen: Mi servono delle scarpe nuove.
  • Mark: Anche a me. Queste qui stanno cadendo a pezzi
Risposta di supporto
  • Karen: Mi servono delle scarpe nuove.
  • Mark: Ah sì? Che modello hai in mente?

Le risposte devianti sono un elemento caratteristico del narcisismo conversazionale. 
Aiutano a riportare continuamente l'attenzione verso se stessi.  Ma una risposta di supporto esorta l'altro a continuare la sua storia. Oggi, io provo ad essere più consapevole del mio istinto di condividere esperienze e parlare di me. Cerco di fare domande che incoraggino l'interlocutore a proseguire. Inoltre, m'impegno in maniera cosciente ad ascoltare di più e parlare di meno.

Di recente, ho avuto una lunga conversazione con un'amica che sta affrontando un divorzio. Abbiamo parlato al telefono per 40 minuti e quasi non ho spiccicato parola. Alla fine della telefonata, lei mi ha detto: "Grazie per il tuo consiglio. Mi hai aiutato a capire un po' di cose". La verità è che non avevo elargito alcun consiglio; le cose che ho detto, perlopiù, suonavano tutte come: "Dev'essere dura. Mi dispiace che stia accadendo a te". Non le servivano consigli o storie. Aveva solo bisogno di qualcuno che l'ascoltasse.

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