Bombardando un sottilissimo strato di un materiale superconduttore con impulsi laser ad alta velocità, i ricercatori dell’Università della California di Riverside hanno ottenuto a temperatura ambiente un incredibile fluido di elettroni.
Il materiale potrebbe permettere applicazioni rivoluzionarie, dalla lotta al cancro alla comunicazione nello spazio.
Ottenuto in laboratorio un nuovo, incredibile stato della materia, un fluido di elettroni che potrebbe avere una moltitudine di applicazioni futuristiche; dalla lotta al cancro, alle comunicazioni nello spazio, passando per le componenti degli attesi computer quantistici fino al rilevamento di armi nascoste.
A crearlo è stato un team di ricerca americano composto da scienziati del Dipartimento di Fisica e Astronomia e del Laboratorio di Materiali Quantistici Optoelettronica presso l'Università della California di Riverside. Gli scienziati, coordinati dal professor Nathaniel Gabor, direttore del laboratorio, avevano già ottenuto in precedenza liquidi di elettroni, ma sempre a temperature estremamente basse; in questo caso invece il fluido è stato creato a temperatura ambiente, il dettaglio fondamentale che lo rende eleggibile per moltissime applicazioni pratiche.
La scoperta. Ma come sono riusciti Gabor e colleghi a ottenere un materiale così stupefacente? Durante i loro esperimenti hanno utilizzato un “sandwich” di sottilissimi strati, composto dal semiconduttore ditelluride di molibdeno (molybdenum ditelluride) alternato a grafene. Lo spessore complessivo era poco più di quello di una molecola di DNA. Bombardando questo materiale con impulsi laser velocissimi, hanno notato che gli elettroni eccitati (carichi negativamente) si sono lasciati alle spalle delle cosiddette buche (cariche positivamente) e hanno iniziato a condensarsi in goccioline, non a comportarsi come un gas.
Proprietà incredibili.
Il fluido di elettroni ottenuto è straordinario poiché opera in maniera super efficiente nella regione del terahertz nello spettro, che è compresa fra microonde e infrarossi. Le proprietà elettroniche del fluido potrebbero permettere di individuare tumori nella pelle e nelle cavità dentali; rilevare armi nascoste sotto i vestiti; verificare difetti nei farmaci; permettere velocissime comunicazioni nello spazio e offrire le basi per i computer quantistici. In aggiunta, esso rappresenta un ottimo modello per studiare fenomeni della fisica fondamentale. Benché si tratti di un materiale estremamente interessante, secondo il professor Iacopo Carusotto dell'Istituto Nazionale di Ottica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ino-Cnr) c'è ancora moltissimo lavoro da fare per vederne all'opera i dispositivi tecnologici ipotizzati, considerati “abbastanza futuristici”.
I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica specializzata Nature photonics.
Forchetta, cucchiaio o bacchette? Mancia sì oppure no? Ogni angolo di mondo ha le sue regole, abitudini, tradizioni. Ecco allora cosa fare e cosa evitare in cinque tra le destinazioni più complesse.
Le dritte su come destreggiarsi tra posate e quantità, senza rischiare brutte figure, arrivano da Secret Escapes, club di viaggi online specializzato in vendite flash per alberghi di lusso.
Francia – Mani avanti: i francesi apprezzano che, quando si sta seduti a tavola, si tengano le mani e i polsi (mai i gomiti) appoggiati alla medesima e non sulle ginocchia. Se le mani non sono in vista, non si vuole immaginare che cosa stia accadendo sotto la tovaglia. Il pane, poi, va appoggiato al tavolo e mai al piatto, mentre è consentito utilizzarlo per avvicinare il cibo alla forchetta. Altra cosa da evitare assolutamente è tagliare con il coltello le foglie della lattuga, che invece vanno piegate e mangiate esclusivamente con la forchetta.
Thailandia – La cucina thai è basata sulla condivisione: le pietanze vengono di solito servite tutte insieme e non suddivise per portate. Ciascuno può servirsi a volontà, anche in modo abbondante, ma è considerato scortese prelevare l’ultima porzione dal piatto comune senza prima essere stati autorizzati dagli altri commensali. La forchetta viene utilizzata solo per accompagnare il cibo verso il cucchiaio, unico utensile autorizzato. Solitamente non si usano le bacchette, a meno che non si stia mangiando un piatto Chinese-style, servito in una ciotola.
Giappone – Qui ci si deve per forza cimentare con le temibili bacchette, visto che anche i cucchiai sono piuttosto rari. Cercate di evitare di incrociarle e non leccatele e, soprattutto, non usatele per infirlzare il cibo: questo è il modo in cui il cibo viene offerto ai defunti nelle cerimonie buddhiste, porta sfortuna. Ugualmente non ci si deve mai passare il cibo utilizzando le bacchette, altra pratica tipica delle cerimonie funebri. Se il piatto da consumare è una zuppa o una ciotola di spaghetti in brodo, è buona pratica consumarli in modo “rumoroso”: un segno di apprezzamento. La mancia, invece, è considerata scortese.
India – Qui l’unico attrezzo utile per mangiare è la mano destra (quella sinistra è considerata impura). Le dita vengono usate anche per mischiare il cibo contenuto nel piatto e per avvicinarlo alla bocca mentre si abbassa la testa per raggiungere meglio il boccone, aiutandosi con il pollice per infilarlo in bocca. Fondamentale il ritmo, lentissimo, con cui si mangia. Finire tutto il cibo presente nel piatto è considerato cortese, sprecare il cibo è irrispettoso.
Cina – Qui lasciare una piccola quantità di ciò che si è ordinato nel piatto è un gesto educato, come per dimostrare che il padrone di casa ti ha donato più del necessario. Le mance invece non si usano (alcuni ristoranti riportano addirittura cartelli con scritto ‘no mancia’). È maleducato prendere qualcosa dal piatto degli altri, così come mangiare troppo velocemente e non vestirsi in modo adeguato. Infine, vai contro ogni forma di educazione occidentale e rutta: è il migliore dei complimenti nei confronti del cuoco. È invece considerato disgustoso soffiarsi il naso in pubblico.
Il resto del mondo… – Se in Italia chiedere del parmigiano da spolverizzare sul proprio pasto può essere considerato un passo falso, in Portogallo quello che non bisogna proprio chiedere sono sale e pepe (è considerato un insulto allo chef). Una mancia del 10% accomuna i due Paesi. In Germania, è buona norma schiacciare le patate con la forchetta, anziché tagliarle con il coltello (vorrebbe dire che sono troppo crude). A una cena tradizionale in Georgia, meglio aspettare i brindisi per bere il vino. E, in Corea, una pietanza offerta da una persona più anziana va accettata sempre con due mani.
Il caso-limite di Elon Musk alla Tesla, che però ha beneficiato di una assegnazione speciale legata agli obiettivi. Warren Buffett è più parco e si ferma a sette volte. In Italia il multiplo retributivo tra ad e operai è di nove volte
16 apr 2019
Prendete una compagnia con cento dipendenti e incolonnateli in base al loro stipendio, poi tirate una riga per dividere la colonna esattamente in due gruppi di cinquanta. La cifra corrispondente a quella riga sarà il loro stipendio mediano. Poi prendete la busta paga del capo-azienda e provate a indovinare quante volte lo stipendio "mediano" sta dentro il guadagno del boss. Volete qualche esempio? Lo offre il Financial Times: il guru della finanza, Warren Buffett, si ferma a sette volte lo stipendio mediano di un dipendente della sua conglomerata Berkshire Hathaway. Elon Musk, il vulcanico inventore della Tesla, arriva a quota 40.668.
In linea di massima, secondo un'analisi della società che si occupa di consulenza sul mondo retributivo Equilar, il rapporto tra la paga di un amministratore delegato e i dipendenti è di 254 a 1, un dato maggiore del 235 a 1 che si registrava nel 2017, quando solo due terzi delle compagnie oggi tracciate svelavano i loro dati.
Alzare il velo su questi rapporti di forza (finanziaria) è un'eredità della cultura post-crisi finanziaria, che Trump ha provato a picconare. In alcuni casi, come a Portland, si è passati dalle buone intenzioni di equità ai fatti, arrivando a imporre balzelli ad hoc per quelle compagnie che hanno ratio troppo squilibrate. Una condizione nella quale dovrebbe ricadere Nike, che proprio in Oregon ha la sua casa, e il cui ceo Mark Parker guadagna 379 volte quello che va in tasca ai suoi dipendenti.
Spiega il quotidiano della City che Equilar ha analizzato le paghe delle 100 maggiori compagnie che avevano pubblicato i dati prescritti entro l'inizio di Aprile. La lista verrà dunque aggiornata in futuro, ma intanto emerge che di questi 100 ceo ben 11 hanno vantato stipendi mille volte superiori il valore mediano che si trova nella loro azienda. Clamoroso il caso di Manpower, la società che fornisce lavoro temporaneo, che vede il capo azienda Jonas Prising guadagnare 2.508 volte la mediana dello staff. Nella classifica di Equilar trovano posto nella top ten anche Bob Iger di Walt Disney o Kevin Johnson di Starbucks.
A dire il vero, poi, il caso di Musk è particolare e infatti non è incluso nella classifica di Equilar. Il pay ratio di 40.668 a 1 si spiega infatti con gli otre 2,2 miliardi legati a un premio di risultato che verrà conferito in caso del raggiungimento di alcuni obiettivi-simbolo, come i 650 miliardi di dollari di capitalizzazione. Solo 56mila dollari sono "garantiti" e Musk ha rifiutato.
E in Italia? Il Salary Outlook da poco pubblicato dall'Osservatorio JobPricing ha ragionato sul cosiddetto "multiplo retributivo", che misura la distanza fra vertice e base della piramide aziendale. Per calcolarlo ha preso il 9° decile della curva retributiva media di un Amministratore Delegato rapportandolo al 1° decile della curva di profili con inquadramento Operaio. Il risultato è un indice pari a 8,1: la retribuzione del vertice aziendale (meglio retribuito nel mercato) è quindi oltre 8 volte superiore a quella dei profili con la retribuzione annua lorda più bassa. Il multiplo cresce ulteriormente arrivando a 9,6 se si considera l’intero pacchetto retributivo, comprensivo anche della retribuzione variabile percepita.
Qualcosa di strano, anche per gli scienziati, sta succedendo in cima al mondo.
Il Polo Nord Magnetico della Terra si sta allontanando dal Canada e si muove verso la Siberia, guidato dal movimento del ferro liquido che si trova all’interno del nucleo esterno del nostro pianeta.
Ma quel che è particolarmente strano è il fatto che il Polo Nord Magnetico si muove così velocemente da costringere gli scienziati di geomagnetismo a compiere una mossa rara.
Il prossimo 30 gennaio (sarebbe dovuto essere il 15 gennaio, ma è slittato in seguito ai problemi all’interno del governo americano) si riuniranno per aggiornare il World Magnetic Model,ossia i dati dell’attuale campo magnetico terrestre che sono molto importanti per tutta la moderna navigazione, dai sistemi a bordo delle navi fino a Google Maps sugli smartphone.
La versione più recente di questi dati è stata pubblicata nel 2015 e avrebbe dovuto avere valore fino alla 2020, ma il campo magnetico terrestre sta mutando così rapidamente che i ricercatori devono correre ai ripari prima del dovuto.
Movimenti del Polo Nord Magnetico. Nature
Spiega Arnaud Chulliat, geomagnetista all’Università del Colorado Boulder e al NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration): “L’errore sta aumentando velocemente e il problema è da ricercare sia in prossimità del polo geografico sia nelle profondità del pianeta”. Il responsabile primo del campo magnetico terrestre sono i movimenti che avvengono all’interno del nucleo esterno del pianeta, che è liquido, dove i le risalite e le discese di grandi quantità di ferro liquido (come bolle di acqua calda in un pentolino sul fornello) creano correnti elettriche che a loro volta producono il campo magnetico terrestre.
Non è solo il Polo Nord Magnetico a creare problemi.
Nel 2016 il campo magnetico sotto il Sud America settentrionale e sotto l’Oceano Pacifico orientale ha avuto un picco di intensità.
Il fenomeno è stato seguito con estrema precisione attraverso satelliti come lo Swarm dell’Agenzia Spaziale Europea. L’insieme di tutto ciò ha fatto sì che confrontando i dati che venivano raccolti quelli del World Magnetic Model ci si è accorti che le discrepanze nel 2018 erano notevoli e che il modello era così impreciso che stava per superare il limite accettabile per gli errori di navigazione. “Cosa sta succedendo? Ci siamo detti di fronte a questa interessante situazione”, spiega Chulliat.
La risposta per fortuna è meno inquietante di quel che si potrebbe pensare: per prima cosa infatti, va detto che l’impulso geomagnetico del 2016 sotto il Sudamerica è arrivato nel momento peggiore, cioè subito dopo l’aggiornamento del 2015 del World Magnetic Model e questo ha destabilizzato immediatamente il modello stesso. Come secondo elemento poi, vi è il movimento del Polo Nord Magnetico che ha peggiorato la situazione.
Il Polo infatti, vaga in modo imprevedibile da molto tempo, un fatto che ha affascinato gli esploratori e gli scienziati già da quando James Clark Ross lo misurò per la prima volta nel 1831 nell’Artico canadese.
A metà degli anni ’90 la velocità di movimento è aumentata da 15 chilometri all’anno a circa 55 chilometri all’anno.
Nel 2001 il Polo Nord Magnetico entrò nell’Oceano Artico e nel 2018 ha attraversato la linea della data internazionale nell’emisfero orientale. Attualmente si sta muovendo in Siberia.
Ma qual è la causa di tutto ciò? Al momento vi sono solo ipotesi.
Gli impulsi geomagnetici come quello avvenuto sotto il Sud America nel 2016, potrebbero essere ricondotti a “onde idromagnetiche” che sono avvenute nel profondo del nucleo e il movimento veloce del Polo Nord Magnetico potrebbe essere collegato ad un getto ad alta velocità di ferro liquido proprio sotto il Canada.
Le cellule del nostro sistema immunitario, quelle che lottano contro batteri e altri microrganismi per difenderci dalle malattie, devono farsi strada tra i tessuti per raggiungere di volta in volta il loro bersaglio. Questo significa viaggiare e trovare il modo di attraversare spazi e fessure anche molto strette, comprimersi, insomma escogitare il modo più efficiente per giungere a destinazione.
In questo video, appena diffuso da Nature, ecco le ultime scoperte in fatto di locomozione delle cellule da parte di un team di ricercatori guidati dall’Institute of Science and Technology Austria, che le ha messe alla prova con diversi ostacoli.
Le stesse strategie vengono adottate dalle cellule dei tumori quando intraprendono la via della metastasi: studi come questo aprono dunque a nuove possibilità di intervento sul cancro.
Dopo sei anni di lavoro, a San Francisco la IBM ha sfidato il campione del mondo di dibattiti con un computer che per 25 minuti ha duellato per sostenere la tesi che gli asili debbano essere finanziati. Ha perso, per ora. Ma la sfida più grande, immaginata nel 1950 dal profeta dell'intelligenza artificiale, è ormai vinta: impossibile distinguere il discorso di una macchina da quello di un essere umano
Il primo ottobre 1950, sulla rivista Mind, il matematico inglese Alan Turing pubblicò un saggio destinato a cambiare per sempre quello che pensiamo sull’intelligenza artificiale.
Si chiamava Macchine Calcolatrici e Intelligenza e provava a rispondere alla domanda: le macchine pensano? Tra i molti spunti interessanti, c’è una profezia: dice, Turing, che tempo 50 anni e non avremo più saputo distinguere fra una frase detta da un essere umano e una di un computer. The Imitation Game, lo chiamò, il gioco dell’imitazione. Ci sono voluti 19 anni in più del previsto, ma quel giorno è finalmente arrivato.
L11 febbraio 2019, nel Moscone Center di San Francisco, già teatro di storici annunci come il lancio del primo iPhone, si è svolta la prima sfida di retorica fra un essere umano e un robot. E il robot ha perso. Per ora. Ma ha parlato così bene, ha sostenuto i suoi argomenti con tale bravura che chi era lì ne è uscito incredulo. L’occasione è stata l’apertura della conferenza annuale sul futuro della IBM, una azienda che da sempre si muove sulle frontiera dell’innovazione.
Fu un computer IBM a sfidare e a un certo punto battere il campione del mondo di scacchi. E poi quello di GO, un altro gioco fatto di calcoli. E poi quello di Jeopardy, un quiz tv molto seguito con domande a trabocchetto. In tutti quei casi però alla fine aveva vinto la capacità di calcolo del computer non davvero la sua intelligenza. Mai si era visto quello che è andato in scena a San Francisco.
Da una parte c’era una sorta di campione del mondo di dibattiti: io non avevo idea che si facessero delle gare, ma pare che sia così e il giovane professore indiano Harish Natarajan, è quello che detiene il maggior numero di campionati mondiali vinti. A sfidarlo un parallelepido nero, alto poco più di una persona, con una fessura azzurra all’altezza degli occhi. A prima vista faceva l’effetto del misterioso monolite nero di “2001 Odissea nello Spazio”, ma qui non ci sono misteri. Si tratta di un progetto, avviato nel 2011 in Israele dal ricercatore Noam Slonim, per costruire una macchina in grado di dibattere con un essere umano. È un progetto e infatti sii chiama Project Debater, ma visto che ha una voce da donna, è stato subito ribattezzato Miss Debater
La sfida consisteva nel sostenere la tesi del perché gli asili nido debbano essere finanziati.
I duellanti hanno avuto 15 minuti per prepararsi: Harish Natarajan ha scritto furiosamente su dei foglietti, Miss Debater ha silenziosamente analizzato circa 10 miliardi di frasi sul tema che sono in rete.
La sfida è poi durata 25 minuti di batti e ribatti. Miss Debater si è anche permessa qualche battuta di spirito. È stata quasi perfetta nel tentativo di emulare un essere umano. Secondo la giuria alla fine ha perso. Ma vale la frase con cui ha esordito: “Benvenuti nel futuro”. Stiamo entrando in una fase nuova. Inizia davvero The Imitation Game.
Un ricercatore dice di avere trovato le tracce dirette del giorno in cui un grande asteroide cambiò per sempre il corso della storia della Terra, 66 milioni di anni fa
Robert DePalma è un paleontologo di 37 anni e sostiene di avere scoperto le tracce del giorno esatto in cui un enorme asteroide cadde sulla Terra, uno degli eventi più catastrofici nella storia del nostro pianeta e che probabilmente causò l’estinzione dei dinosauri. La sua ricerca, da poco pubblicata sulla rivista scientifica PNAS, è stata ripresa dai giornali di tutto il mondo e sta facendo molto discutere, perché potrebbe essere la conferma che i paleontologi cercavano da decenni su cosa causò l’estinzione di buona parte degli organismi viventi della Terra circa 66 milioni di anni fa.
La storia di DePalma e della sua scoperta è stata raccontata da Douglas Preston in un lungo articolo sul New Yorker, che aiuta a comprendere meglio la portata delle dichiarazioni del paleontologo e la loro importanza, senza tralasciare lo scetticismo di alcuni colleghi in un ambito della ricerca storicamente molto competitivo come quello della paleontologia.
Il giorno dell’impatto
In un giorno di 66 milioni di anni fa divenne visibile in cielo qualcosa che prima non c’era: un corpo celeste luminoso quanto una stella che col passar del tempo diventava sempre più luminosa. Era un asteroide, con un diametro massimo di quasi 10 chilometri, diretto verso la Terra. Il suo ingresso nell’atmosfera produsse una colossale onda d’urto, poi la grande roccia spaziale raggiunse il suolo ad alta velocità, colpendo le acque di un mare poco profondo in corrispondenza dell’attuale penisola dello Yucatán, che separa il golfo del Messico dal mar dei Caraibi.
Secondo le simulazioni e i modelli matematici realizzati negli ultimi anni, l’impatto dell’asteroide portò alla formazione di un grande cratere profondo circa 20 chilometri e con un diametro di 150 chilometri, proiettando nell’atmosfera circa 25mila miliardi di tonnellate di detriti. L’energia prodotta fu pari a quella di un miliardo di volte la bomba atomica sganciata su Hiroshima, con materiale incandescente proiettato in pochi istanti oltre l’atmosfera e nuovamente sulla Terra a migliaia di chilometri di distanza. Detriti talmente caldi da incendiare qualsiasi cosa incontrata nella loro caduta verso il suolo. Un enorme cono rovesciato di roccia liquefatta si sollevò nell’aria, producendo una gigantesca grandinata di piccoli frammenti vetrosi (“tectiti”) che avrebbe ricoperto buona parte dell’emisfero occidentale.
Alcuni dei detriti proiettati oltre l’atmosfera terrestre iniziarono un viaggio interplanetario, spingendosi per milioni di chilometri e raggiungendo altri pianeti come Marte e le lune di Saturno e di Giove. Alcuni di questi frammenti forse portarono con sé batteri terrestri, rendendo l’asteroide che cancellò buona parte della vita sulla Terra un distributore indiretto di vita su altri mondi lontano dal nostro.
Sulla Terra le cose si scaldarono rapidamente. Le polveri incandescenti causate dalla completa distruzione dell’asteroide al momento dell’impatto al suolo avvolsero buona parte dell’atmosfera, causando incendi prima nell’emisfero occidentale e in seguito nelle foreste indiane, a migliaia di chilometri di distanza dallo Yucatán. Gli incendi fecero bruciare il 70 per cento circa di tutte le foreste esistenti all’epoca.
L’impatto causò inoltre terremoti molto potenti e tsunami, con onde alte decine di metri che si abbatterono sulle coste. Quando i mari si ritirarono, portarono con sé vegetazione, animali e detriti dall’entroterra, riversandoli sui fondali dove si trovano ancora oggi, sommersi da altri strati di roccia.
Per mesi le polveri nell’atmosfera impedirono ai raggi solari di filtrare. I processi di fotosintesi si arrestarono quasi completamente, determinando la fine di buona parte delle piante e causando una riduzione netta dell’ossigeno nell’aria. A incendi ormai spenti, la Terra entrò in un periodo buio e gelido che con l’impatto dell’asteroide contribuì a far estinguere il 75 per cento delle specie che all’epoca la popolavano. Secondo le stime più recenti, il 99,9999 per cento degli esseri viventi sulla Terra morì, anche a causa dei numerosi gas tossici rilasciati nell’atmosfera.
Limite KT
A 66 milioni di anni di distanza, possiamo teorizzare ciò che avvenne sulla Terra grazie a una sottile linea di sedimenti sepolti sotto gli strati superficiali di roccia. Questo strato di detriti e polveri che si depositarono dopo l’impatto dell’asteroide viene solitamente definito “Limite KT”, perché segna la linea di demarcazione tra il Cretacico (K) e il Terziario (T, oggi definito Cenozoico, a sua volta suddiviso in tre periodi, tra i quali il Paleogene è il più prossimo al limite KT). Semplificando: scavando subito sopra il KT ci sono tracce del Paleogene, se si scava subito sotto ci sono invece quelle del Cretacico.
Trovare fossili in prossimità del KT è molto, molto, difficile. In oltre un secolo e mezzo di ricerche, nessuna traccia di dinosauro è stata trovata nei tre metri al di sotto del limite, una profondità che equivale a diverse migliaia di anni in termini geologici. L’assenza di ritrovamenti ha portato molti paleontologi a ipotizzare che i dinosauri si fossero in buona parte estinti ancora prima dell’arrivo dell’asteroide, a causa di una serie di grandi eruzioni vulcaniche che avevano portato a un cambiamento del clima, non favorevole alla loro vita. Ma questa teoria è contestata da molti altri ricercatori, che ritengono invece che i fossili ci siano eccome, ma non siano ancora stati trovati.
Il segreto di DePalma
Preston racconta che nell’estate del 2013 ricevette una breve email da DePalma, all’epoca neolaureato in paleontologia, con la quale spiegava di avere fatto una “scoperta incredibile e senza precedenti”, qualcosa di così clamoroso per il suo campo di ricerca da preferire parlarne a voce, senza che restassero comunicazioni scritte. I due si sentirono al telefono e DePalma raccontò di avere trovato in uno scavo le vittime dirette del catastrofico impatto dell’asteroide sulla Terra, circa 66 milioni di anni fa. DePalma era già entrato in precedenza in contatto con Preston, che aveva scritto un romanzo sui dinosauri immaginando, tra le altre cose, una scoperta simile a quella che sosteneva di avere fatto il ricercatore.
Incuriosito dal racconto di DePalma, e lusingato dalla fiducia nell’avergli raccontato il segreto, Preston salì su un aereo e raggiunse il North Dakota, negli Stati Uniti, dove si trovava lo scavo cui stava lavorando il ricercatore. La formazione geologica – nota come Hell Creek – si estende tra North e South Dakota, Montana e Wyoming: è molto conosciuta dai paleontologi ed è ricca di fossili di dinosauro.
Hell Creek
66 milioni di anni fa, poco prima dell’asteroide, Hell Creek aveva un clima subtropicale, il territorio era soggetto a periodiche inondazioni e conteneva un piccolo mare interno. Era una zona molto popolata: quando animali e piante morivano, le frequenti inondazioni facevano sì che i loro resti fossero rapidamente sommersi da strati di fango, che ne avrebbero favorito la conservazione e la successiva fossilizzazione. Fu in quest’area che fu trovato per esempio il primo fossile di Tyrannosaurus rex all’inizio del Novecento, con successive scoperte di molti altri dinosauri come i triceratopi.
La teoria dell’asteroide
Per decenni i ricercatori hanno ritenuto che l’estinzione KT fosse avvenuta in un modo piuttosto banale: in milioni di anni, la grande attività vulcanica e il cambiamento climatico resero il pianeta sempre meno adatto alla vita dei dinosauri e di molte altre forme di vita, comportandone l’estinzione. Alla fine degli anni Settanta, Walter e Luis Alvarez arrivarono a una conclusione diversa: nel limite KT era presente un’insolita concentrazione di metalli rari come l’iridio, compatibili con l’impatto di un asteroide. Nel 1980 pubblicarono il loro studio su Science, ipotizzando che l’evento fosse stato così grande da innescare un’estinzione di massa e che il limite KT fosse la stratificazione dei detriti che lo testimoniavano.
La teoria fece molto discutere e portò a una divisione tra chi teorizzava una progressiva estinzione e chi un evento netto e traumatico. I secondi ebbero nuove conferme, al punto da portare la loro teoria a essere prevalente, quando nel 1991 fu annunciata la scoperta del cratere (ora sepolto) che era stato prodotto dall’asteroide nella penisola dello Yucatán: per età, dimensioni e composizione chimica, era compatibile pienamente con la teoria dell’asteroide.
La scoperta portò a ulteriori indagini e analisi, sfociate nella pubblicazione di una ricerca su Science nel 2010 dove oltre 40 ricercatori di diverse discipline arrivarono a una conclusione condivisa: fu l’impatto di un asteroide a causare l’estinzione di massa di 66 milioni di anni fa, la diatriba doveva considerarsi risolta. Una minoranza di ricercatori continua comunque a ritenere che l’estinzione avvenne gradualmente, a causa dei cambiamenti climatici causati dalla grande attività vulcanica all’epoca, durata per centinaia di migliaia di anni: non negano che ci fu l’impatto di un meteorite, ma ipotizzano che quando avvenne l’estinzione dei dinosauri fosse già iniziata da tempo.
La nuova scoperta
Nel 2012 DePalma era alla ricerca di un nuovo sito in cui proseguire i suoi studi a Hell Creek quando venne a conoscenza di un collezionista privato, che aveva iniziato gli scavi nella zona di Bowman, nel North Dakota. Era rimasto deluso dalla presenza di ritrovamenti troppo fragili, per lo più fossili di pesci, e aveva detto a DePalma che poteva accedere tranquillamente al sito per le sue ricerche.
DePalma notò che i fossili nello strato che stava analizzando appartenevano a uno stesso singolo deposito di materiale, quindi a uno stesso preciso periodo. Per quanto fragili, i resti erano in molti casi perfettamente conservati: c’erano fossili di pesci completi, una rarità per Hell Creek, che con grande cura potevano essere prelevati e trasportati altrove per le analisi. Intuendo di avere per le mani qualcosa di prezioso, DePalma si mise d’accordo con il proprietario del terreno per averlo in comodato d’uso per diversi anni. È una pratica comune a Hell Creek, dove i proprietari terrieri sono felici di affidare piccoli appezzamenti ai paleontologi, con contratti riservati e per cifre che variano molto, a seconda dell’abilità dei contraenti nel trattare sul prezzo.
Proseguendo gli scavi, DePalma notò qualcosa di insolito: minuscoli detriti sferici di materiale vetroso. Erano microtectiti: le piccole formazioni che si creano quando la roccia fusa cade al suolo, raffreddandosi, assumendo le sembianze di una sorta di fitta e fine grandinata. Un fenomeno simile si verificò subito dopo l’impatto dell’asteroide 66 milioni di anni fa e la zona in cui stava lavorando DePalma si stava rivelando piena di microtectiti.
Esplorando ancora lo strato di suolo su cui stava lavorando, DePalma trovò una grande e varia quantità di fossili, tutti molto delicati, ma ben conservati. Trovò per esempio resti di piante, intrecciati tra loro, pezzi di legno, pesci pressati contro le radici fossili di alberi, cortecce con al loro interno tracce di ambra, la loro resina fossilizzata. Di solito i resti di questo tipo sono compressi tra loro, a causa delle successive stratificazioni che li pressano, ma nel caso del materiale trovato da DePalma era tutto notevolmente tridimensionale. DePalma iniziava a persuadersi di essere davanti alla più importante scoperta nella paleontologia contemporanea.
I fossili di Hell Creek
DePalma rimosse il fossile di un pesce spatola lungo un metro e mezzo circa, notando al di sotto dei suoi resti il dente di un mosasauro, un grande rettile marino carnivoro. Si chiese come mai un pesce di acqua dolce e un animale che vive nel mare fossero finiti nello stesso posto, in una zona che all’epoca si trovava a diversi chilometri dal mare più vicino. Il giorno seguente, DePalma trovò la coda di un altro animale marino, che sembrava essere stata staccata in modo repentino e violento dal resto del corpo. Anche in questo caso si trovava in un posto dove non sarebbe dovuta essere, vista la distanza dal mare.
Proseguendo lo scavo, DePalma notò la presenza di un piccolo cratere con un diametro intorno ai 10 centimetri, che era stato probabilmente formato da qualcosa che era precipitato velocemente al suolo. Incuriosito, si mise alla ricerca di ciò che lo aveva prodotto trovando infine nelle vicinanze una piccola sfera vetrosa, in corrispondenza del fondo del cratere. Era un tectite di 3 millimetri di diametro, la traccia dell’impatto di un asteroide.
DePalma si mise allora alla ricerca di altri crateri, trovandone diversi con al loro interno un tectite. I microtectiti che aveva scoperto nei giorni precedenti potevano essere stati trasportati dall’acqua, ma quelli che stava osservando ora non potevano che essere caduti in quel punto, vista la presenza dei piccoli crateri che avevano formato. E non potevano che essere caduti in quell’esatto giorno di 66 milioni di anni fa in cui un asteroide aveva sconvolto la vita sull’intero pianeta.
«Quando li ho visti, sapevo che non si trattava di detriti di un’inondazione qualsiasi. Non eravamo vicini al limite KT, questo intero sito è il limite KT», spiegò con entusiasmo DePalma a Preston, durante la sua visita dello scavo nel 2013.
Sulla base dei ritrovamenti, DePalma ipotizzò che un aumento del livello delle acque nella zona avesse inondato l’area dell’attuale scavo, probabilmente in seguito allo tsunami causato indirettamente dall’impatto del meteorite. Man mano che l’ondata diminuiva e rallentava, depositò tutto ciò che aveva raccolto nel suo tragitto: prima i detriti più pesanti, poi il resto. Fu tutto rapidamente sepolto da uno strato di fanghiglia, preservando – come in un’istantanea tridimensionale – creature marine di acqua dolce e salata, piante, alghe, pezzi di alberi, fiori, pollini, conchiglie, ossa, tracce di ambra e uova. Poi iniziò la fine grandinata di tectiti, che formò i piccoli crateri trovati da DePalma.
“Il giorno in cui morì il Cretacico”
Se le conclusioni di DePalma sono corrette, ci troveremmo davanti al più importante ritrovamento nella storia della paleontologia da molto tempo. Per dirla come il ricercatore la raccontò a Preston: «Abbiamo l’intero evento KT conservato in questi sedimenti. Con questo deposito, possiamo ricostruire ciò che avvenne nel giorno in cui morì il Cretacico».
DePalma chiese a Preston di tenere per sé il segreto e di non raccontare a nessuno che cosa aveva visto nel North Dakota. Le ricerche erano preliminari e sarebbero stati necessari anni prima di arrivare alle prime conclusioni, nel frattempo nessuno doveva scoprire su cosa stesse lavorando di preciso il ricercatore. A differenza di altri ambiti scientifici, la paleontologia pecca spesso di trasparenza e condivisione, fino a quando non vengono compiute le scoperte. La storia di questo ramo della scienza è costellata di grandi rivalità, dispetti, piccolezze e meschinerie tra i suoi più importanti protagonisti.
Prima di annunciare qualcosa, DePalma voleva essere inoltre certo della sua scoperta e di non ripetere un grave errore compiuto in quegli stessi anni. Nel 2015 aveva pubblicato una ricerca annunciando la scoperta di una nuova specie di dinosauro, il Dakotaraptor, sulla base di un fossile che aveva pazientemente ricostruito. In quel puzzle di migliaia di pezzi, DePalma aveva però inserito erroneamente alcuni resti fossili di una tartaruga: l’errore non aveva inficiato la scoperta, ma aveva portato a pesantissime critiche nei suoi confronti da parte di diversi colleghi.
Dopo le prime scoperte nel 2013, per circa cinque anni DePalma continuò a lavorare sodo al suo scavo, condividendo parte delle scoperte con una manciata di ricercatori, tutti considerati luminari nello studio del limite KT, racconta Preston nel suo articolo. E finora le ricerche gli hanno permesso di trovare: piume compatibili con il ritrovamento di alcuni arti di dinosauro (sì, molte specie di dinosauro erano piumate), resti di numerose specie acquatiche, fossili di mammiferi, formicai sommersi dall’inondazione con relative formiche annegate, la tana di un mammifero, fossili di piante, uova di dinosauro e altri loro resti. Questi ultimi sono particolarmente rilevanti perché potrebbero smentire la teoria secondo cui i dinosauri fossero già pressoché estinti quando l’asteroide colpì la Terra.
Il giusto asteroide e qualche dubbio
In questi anni DePalma ha lavorato senza sosta per provare a prevenire qualsiasi obiezione sulla sua scoperta, a cominciare dalla più ovvia: cosa ci assicura che le tracce trovate a Hell Creek siano quelle dell’evento KT e non quelle dovute all’impatto, meno devastante, di un altro asteroide? DePalma ha raccolto tectiti dalla zona di Haiti, la cui origine derivante dall’impatto dell’asteroide nello Yucatán è data per certa, e li ha fatti confrontare con quelli trovati a Hell Creek da un laboratorio indipendente in Canada. I campioni, analizzati nello stesso momento e con le stesse strumentazioni, hanno portato a identificare le stesse caratteristiche geochimiche.
Nel 2016, DePalma diede qualche anticipazione circa le sue scoperte nel corso della conferenza annuale della Geological Society of America in Colorado, ma senza entrare nel dettaglio. Per quanto generico, l’annuncio causò grande curiosità ed entusiasmo tra i partecipanti, ma anche scetticismo. Lo stesso approccio fu seguito nei due anni seguenti nelle successive presentazioni tenute da DePalma. Tra gli scettici riaffiorarono i dubbi sulla scoperta, il precedente del fossile di Dakotaraptor mischiato a quello di una tartaruga, più dubbi sulla corretta datazione dello scavo nel North Dakota.
Quando tutto finì e ricominciò
La pubblicazione su PNAS della ricerca scientifica di DePalma, firmata insieme ad altri 11 paleontologi di fama mondiale compreso Walter Alvarez, mette un primo punto fermo a sei anni di distanza dalle prime scoperte effettuate a Hell Creek. Ora gli altri ricercatori potranno leggere la ricerca, valutare quali aspetti siano più o meno convincenti, confrontare prove e dati portati dagli autori e proseguire il dibattito che in questi decenni ci ha fatto scoprire così tante cose sul remoto passato del nostro Pianeta.
Un giorno imprecisato di 66 milioni di anni fa, l’impatto di un grande asteroide rese la Terra – un pianeta così adatto per la vita e una formidabile eccezione nella storia planetaria – un posto buio e inospitale, ostile alla maggior parte degli esseri viventi. Quando i primi raggi di luce solare riuscirono nuovamente a filtrare, illuminarono grandi pianure disabitate, senza foreste e ricoperte di ceneri, e oceani sostanzialmente privi di vita. In quella desolazione, funghi e alghe spartivano la loro esistenza con pochi altri esseri viventi, come piccoli mammiferi e felci. In milioni di anni le cose migliorarono, il clima tornò a differenziarsi e nuove specie si evolsero popolando nuovamente la Terra.
Finché ci furono i dinosauri, i mammiferi non ebbero spazio per prosperare e diventare dominanti. Liberi dalla loro presenza e con un pianeta sempre più florido a disposizione, finalmente poterono prosperare e iniziare la lunga strada che portò alla nascita dei primi ominidi e infine di Homo sapiens, la nostra specie. È probabilmente grazie a quell’asteroide, alla devastazione che portò sul Pianeta milioni di anni fa, se oggi siete davanti a uno schermo a leggere questa che in fondo è la nostra storia.
Era il 31 marzo del 1999 quando Matrix, il rivoluzionario film degli allora fratelli Wachowski cambiava per sempre la percezione del cinema fantascientifico.
Matrix è ovunque, è intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L' avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.
Piovono rane, crollano palazzi, l'essere umano è ridotto a vegetale. Campi sterminati di corpi atrofizzati usati come pile per alimentare macchine senzienti. Corre l'anno 1999 e il cinema sublima in modo più o meno inconscio l'avvento del nuovo millennio. Un evento stimolante, che dietro la sua parvenza d'eccitazione nasconde inquietudini profonde come la Tana del Bianconiglio. E allora ecco le stranianti precipitazioni di Magnoliae lo spirito apocalittico di Fight Club. E poi lei: la disturbante allegoria dedicata alla presunta scissione tra l'Io reale e l'Io digitale profetizzata da quel capolavoro di Matrix. Mentre lo spauracchio del Millenium Bug solletica timori collettivi, gli allora fratelli Wachowski si ispirano al Mito della Caverna di Platone per mettere in scena il binomio verità-virtuale in sala cyberpunk.
Da allora codici binari, pillole rosse e azzurre, occhiali da sole senza stanghette e abiti di pelle non saranno mai più gli stessi.
Piombato nell'immaginario collettivo con la stessa "grazia" di un meteorite, Matrix impatta nei nostri occhi con prepotenza strabiliante. Spaventa e affascina. Travolge e sconvolge.
Perfetto manifesto cinematografico del postmoderno e del postumanesimo, la distopica avventura di Neo supera la rigida dicotomia tra reale-virtuale per abbracciare un nuovo modo di concepire le nostre vite digitali. Non più off line contro on line, ma una rivoluzione raccontata da un film del 1999.
Dieci anni prima del boom dei social media, Matrix prevede il futuro attraverso un film profetico, lucido, leggibile a seconda del piano a cui lo spettatore preferisce scendere. Stratificato in più livelli di lettura, il cult delle sorelle Wachowski tanto trascinante nella sua scintillante veste di action movie quanto esistenziale quando rivela la sua profonda natura filosofica.
Succede tutto in un film che ridefinisce l'estetica e il peso iconico della fantascienza, costruendo una poderosa diga come fatto da Blade Runner tanti anni prima.
Perché c'è un prima e un dopoMatrix, un solco ben visibile nella storia del cinema.
Arrivano nelle sale americane il 31 marzo del 1999 (in Italia uscì a maggio), Matrix vinse 4 Premi Oscar, ma soprattutto ha reso sacra la sua laica trinità. Da allora Neo, Morpheus e Trinity sono diventati il simbolo di un capolavoro assoluto, di una profezia in cui siamo tutti ancora immersi sino al collo. Quello che è arrivato dopo diventa più piccolo al sol confronto. Anche i suoi sequel. Anzi, no. I sequel sono come cucchiai. Facciamo finta che non esistono.
Mito, fantasy, fiaba nera: il futuro è una vecchia storia
Di giorno l'alienato signor Anderson, comune programmatore di software relegato alla propria grigia scrivania.
Di notte Neo, abile hacker in grado di aggirare qualsiasi protocollo di sicurezza. Sembra la classica doppia vita da supereroe (e non a caso impererà a volare), ma Matrix è molto più complesso di così. Andando alle fondamenta della sua storia, Matrix tocca tantissimi archetipi narrativi. Il primo è senza dubbio quello della fiaba oscura dalle derive fantasy, con un eroe chiamato a lasciare il suo mondo per addentrarsi in una realtà parallela da salvare (Narnia vi dice qualcosa?).
Come una moderna Alice, Neo segue il suo Bianconiglio per addentrarsi nell'oscura menzogna che ha sempre vissuto, per scoprire un mondo disperato dove la meraviglia non è stata invitata. Proprio come all'interno di una saga fantasy, Neo è eletto a salvatore supremo da una profezia, dovrà parlare con un oracolo e soprattutto sarà temprato dal classico mentore. Senza Morpheus, vero e proprio faro illuminante (capace di temprare l'allievo sia nello spirito che nel corpo), nulla sarebbe accaduto. Il sommo maestro, poi, si porta addosso un nome non casuale, visto che nella mitologia greca Morfeo era il Dio del Sonno. Per contrappasso, le Wachowski lo trasformano in un ambasciatore del risveglio, in colui che scuote Neo da un pesante torpore. Il tutto senza dimenticare il richiamo per certi versi cristologico nemmeno alla figura del messia, tradito dal Giuda di turno (il mellifluo Cypher), destinato a salvare l'umanità. Ecco come, con grande maestria e senza mai cadere nel miscuglio confusionario di immaginari troppo distanti tra loro, Matrix è stato capace di raccontarci il futuro attraverso la storia più vecchia del mondo.
Non pensare di esserlo. Convinciti di esserlo.
Tra occhiali da sole e bullet time: l'impatto estetico
Non di sola, profonda sostanza è fatto Matrix.
Se vent'anni dopo siamo qui a celebrarne il mito, è anche merito di un'estetica affascinante e funzionale al racconto.
Un'estetica capace di imporsi sull'immaginario cinematografico grazie all'abilità con cui le Wachowski hanno ridefinito il cinema action e la fantascienza. E anche in questo caso ci troviamo davanti a più livelli di lettura. C'è lo strato più superficiale e glamour, che ha reso irresistibili per anni gli occhiali da sole e gli abiti di pelle dei nostri ribelli. C'è l'atmosfera immersiva in cui Matrix ti abbraccia (o meglio, affoga) ogni volta che lo vedi. Grazie alle sue città anonime e impersonali che potrebbe essere ovunque e al sotterraneo tormento della vita vera, in cui i corpi umani sono dotati di spinotti e ogni piacere o vezzo umano è bandito. Impossibile non citare la fotografia livida, dove il verde domina sovrano, e soprattutto la vincente intuizione del bullet time, ovvero quell'effetto rallentyaccompagnato a un movimento circolare della macchina da presa, poi ripreso, citato, imitato da centinaia di altri film e videogame come Max Payne. Quelle scene d'azione, così spettacolari, ben coreografate e leggibili, hanno davvero ridefinito tutto quello che arrivato dopo.
Questa è... scrittura
Come si può creare un cult in grado di essere sia una perla d'azione sci-fi che una raffinata metafora esistenziale?
Se Matrix è un felice abbraccio di intrattenimento e riflessione intellettuale è soprattutto grazie a una scrittura sapiente.
Pur essendo complesso, Matrix non è complicato: svela le sue carte e ti racconta il suo mondo perverso grazie a dialoghi profondi ma sempre comprensibili. Attraversi i lunghi monologhi affidati ai personaggi di Morpheus e dell'agente Smith, il film sbroglia la sua matassa grazie a parole evocative, penetranti e accessibile. Senza mai sfociare nel criptico o nel cervellotico, Matrix si specchia di una distopia torbida dove è tutto trasparente e facilmente leggibile. Per tutta la durata del film noi ci sentiamo al fianco di Neo, perché siamo il signor Anderson: inconsapevoli, confusi, presi per mano e poi gettati dentro qualcosa di più grande di noi. Qualcosa che sconvolgerà per sempre le nostre vite (di spettatori). Matrix ci fa vivere l'esperienza del disorientamento e poi quella della consapevolezza. E se ci esaltiamo ogni volta che vediamo Neo trasformarsi nell'eletto, è anche merito di battute più disimpegnate e ficcanti, simili a quelle di un fumetto. Tra lo "schiva questo" di Trinity e il "mi chiamo Neo" sussurrato in metropolitana, ecco che Matrix svela anche il suo lato più essenziale e pop.
Essere l'eletto è un po' come essere innamorati. Solo tu sai di esserlo. Nessuno può dirti se lo sei o no...è un qualcosa che ti scorre nelle vene.
Filosofia postmoderna
Platone 2.0, filosofia cyberpunk, l'io liquido del pensiero postmoderno che trova il suo manifesto cinematografico.
Non basterebbero tesi di laurea e manuali di saggistica per vivisezionare come si deve il nucleo rovente di Matrix. Un film che dieci anni prima del boom di Facebook parlava già di identità fluida e cangiante, di immagine residua di sé, pronta a cambiare faccia a seconda del contenitore in cui veniva mostrata. Matrix prendeva atto dell'inevitabile cortocircuito tra reale e virtuale che avevamo scritto nel nostro destino, e lo faceva ponendoci una domanda atavica: cosa è reale? Scisso tra l'essenza della realtà e la beffarda percezione della realtà, Matrix è puro stimolo filosofico, ovvero perenne invito a fare della domanda la propria ragione di vita. Più delle risposte, sono i quesiti a renderci più umano dell'umano (tanto per citare un alto cult), sono gli interrogativi che fanno di noi persone (e utenti) più consapevoli. Le domande, insomma, a renderci meno signor Anderson e un po' più neo. Il tutto raccontato da un film meraviglioso, disturbante nella sua lucida visionarietà, laddove niente è ciò che sembra. Però, una certezza c'è: Matrix è un lugubre, profondo, folle incubo dal quale non vorremmo più risvegliarci. Per questa volta scegliamo la pillola azzurra. Perdonaci, Morpheus.
Ha imparato a riconoscere le malattie più comuni nei bambini
13 feb 2019
L’intelligenza artificiale diventa un pediatra: ha imparato a riconoscere e diagnosticare le malattie più comuni nei bambini grazie ad apprendimento automatico e Big Data.
Lo indica la ricerca condotta fra Cina e Stati Uniti e pubblicata sulla rivista Nature Medicine dall’Università della California a San Diego, dall'università di Guangzhou e dalla Yitu Technology.
La sperimentazione dimostra che i sistemi basati sull'intelligenza artificiale potrebbero lavorare a fianco dei medici, aiutandoli a esaminare grandi quantità di dati e supportandoli nella diagnosi. Il nuovo sistema è stato addestrato e messo a punto su più di 100 milioni di dati provenienti da oltre 1 milione e 300.000 visite pediatriche fatte a Guangzhou.
Il sistema di intelligenza artificiale è stato in grado di identificare le informazioni più importanti dal punto di vista clinico e di stabilire associazioni che altri metodi statistici non hanno rilevato. Ha inoltre dimostrato un livello di accuratezza molto elevato quando è stato messo a confronto con pediatri in carne ed ossa.
Il sistema basato si è comportato molto bene soprattutto nel riconoscere due importanti categorie di malattie: quelle molto comuni, come l'influenza, e quelle più rare e pericolose, come attacchi di asma acuti e meningite. Secondo i ricercatori in futuro il sistema potrebbe essere utilizzato negli ospedali, per l'esame preliminare dei pazienti in attesa.