di Carlo Bastasin, 31 dic 2013
La mancanza di altre certezze rende attraenti gli anniversari. Così sul 2014 torna e ritorna incessantemente l'eco del 1914, anno di inconsapevole scivolamento verso una carneficina senza precedenti.
Anche Angela Merkel ha citato con pathos l'incoscienza, o il sonnambulismo, con cui il mondo è entrato nella Prima guerra mondiale.
Ma gli anniversari non sono che un trompe-l'oeil. Se c'è un anno che ricorda il 2014 questo è piuttosto il 1920, un anno che segue, non che precede, la distruzione. Secondo quella che Raymond Aron chiamava la "spietatezza delle statistiche", nel 1920 la popolazione europea era più o meno la stessa di dieci anni prima. Il reddito nazionale e il livello di vita delle masse erano superiori nei principali Paesi rispetto al 1914. I quattro anni di guerra apparivano solo «come una diminuzione temporanea su una curva crescente». Invece, dopo solo pochi anni, le conseguenze politiche della Prima guerra mondiale posero le premesse della Seconda, ancora più sanguinosa.
Le analogie storiche sono forzature. Eppure il recupero economico del primo dopoguerra ci costringe a interrogarci, se è vero che perfino negli Stati Uniti la quota di occupati nel 2013 non è aumentata rispetto al 2009 e che il reddito potenziale è arretrato rispetto a quello di cinque anni fa. L'ossessione per i cicli politici ci fa perdere di vista i cambiamenti strutturali. Larry Summers, sostenitore di uno scenario di "stagnazione secolare" ricorda che il reddito del Giappone è oggi metà rispetto a quello che era stato previsto alla metà anni Novanta. Se l'Italia avesse mantenuto il livello di crescita potenziale di venti anni fa – un calcolo peraltro quasi impossibile – il suo reddito sarebbe il 50% più alto di quello attuale: come danni di una guerra persa per distrazione, senza essere nemmeno combattuta.
Proprio perché il sangue non si vede, servivano gli occhi della buona politica per non oscurare le vittime. L'analogia con il 1920 ci insegna non solo che alcuni Paesi sono incapaci di recuperare le perdite economiche, ma che le conseguenze politiche possono essere peggiori di quelle economiche: la contesa elettorale perde il senso della costruzione, il discorso pubblico si avvita, lo sguardo si accorcia, tutto è sfiducia. Ma ciò che rende difficile il riaggancio a un'analisi razionale dei problemi nazionali è che come nel 1920 anche oggi in ogni paese, dagli Stati Uniti alla Germania, dalla Cina all'Italia, la crisi è stata attribuita a ragioni diverse. Per gli spiriti razionali di un Paese in difficoltà come l'Italia, lo sforzo politico è ancora maggiore: non c'è riparo in un comune terreno di coordinamento politico internazionale. Di conseguenza un potenziale di nazionalismo coltiva sotto il rancore per le difficoltà.
Il paradosso è che nessuno più dubita di vivere in un mondo interconnesso. Le ripercussioni tra Paesi sono enfatizzate e compresse dal sistema finanziario e quindi sono maggiori in periodi di turbolenza. Quando il momento più acuto passa, chi è stato lento nell'uscire dalla crisi è anche isolato.
La crisi finanziaria globale ha lasciato in eredità alti debiti, tassi reali d'interesse negativi e una minore credibilità dei policymakers. Gli strumenti a disposizione – la politica fiscale, quella monetaria e la progettualità futura – sono esausti. In questo contesto, i guadagni del coordinamento delle politiche tra i Paesi sarebbero maggiori. Alcuni Paesi possono utilizzare la leva fiscale anche per quelli che non lo possono fare; altri quella monetaria, altri ancora quella istituzionale. Il coordinamento dovrebbe orientare i progetti politici nazionali.
Gli anniversari sono ingannevoli perché gli uomini sanno imparare dalla storia. La risposta di politica economica alla recessione del 2009 - peggiore di quella dell'inverno 1929-30 - ne è una dimostrazione. Abbiamo imparato e impiegato strumenti che non esistevano prima. La lezione politica resta elusiva.
Come nel 1920 fatichiamo a ritrovare la strada del coordinamento internazionale. Tra America, Giappone ed Europa si sta aprendo il fronte del mancato coordinamento monetario. All'interno dell'Unione Europea si va perdendo il significato di una convivenza unica, il cui inedito coraggio era in realtà figlio proprio delle paure del Novecento. Il ritorno delle politiche "a casa propria" sta già gettando i semi della prossima crisi, che non verrà più dal centro del capitalismo, ma dalla sua periferia.