Da Il Fatto Quotidiano
Giappone, ecco la famiglia reale: persone senza documenti, cognome e diritto di voto
Un senatore in una lettera all'imperatore: "Dopo Fukushima, tanti malati di cancro. Faccia qualcosa". Ma scrivere ad Akihito gli ha procurato l'accusa di attentatore della Costituzione. I membri della Corona, infatti, non sono comuni "cittadini"
di Pio d'Emilia, 8 nov 2013
Qualche giorno fa – e le polemiche sono tutt’altro che sopite – un senatore
di primo pelo ha avvicinato Sua Maestà Akihito – che la vigente
Costituzione definisce “simbolo dell’unione del popolo
giapponese” e all’articolo 4 indica dettagliatamente gli atti che deve compiere
– durante un ricevimento e anziché limitarsi agli inchini e alle frasette di
circostanza l’ha letteralmente bloccato intrattenendolo sulla gravità della
situazione a Fukushima. “Maestà, non so se lei se ne rende
conto, ma avremo migliaia di bambini malati di cancro nei
prossimi anni e la situazione alla centrale è drammatica. La prego, faccia
qualcosa”, pare gli abbia detto, facendosi sentire da altri, il senatore. Non
solo: per essere sicuro che dell’evento restasse traccia, Taro
Yamamoto, così si chiama il giovane senatore, gli ha anche consegnato
una lettera di 4 pagine, vergata a mano.
Al povero senatore – che tuttavia per ora si rifiuta sia di chiedere scusa
sia di dimettersi – gliene hanno dette di tutti i colori:
arrogante, esibizionista, provocatore.
Attentatore della Costituzione. Addirittura. Tra tutte, questa mi sembra
francamente la più grossa corbelleria, e offre l’occasione per cercare di capire
chi siano i “reali” del Giappone e che razza di vita siano costretti a condurre,
solo perché alla fine della guerra, anziché porre fine ad un sistema imperiale
che tranne brevi periodi era stato più cerimoniale che istituzionale, gli
americani decisero, per tutta una serie di ragioni, di mantenerlo in piedi, pur
imponendo la rinuncia ad ogni pretesa divina e a qualsiasi ruolo politico. Anche
quello di ricevere, e magari rispondere, ad una lettera? E che ci sarebbe mai di
male?
Sia il Papa che il Dalai Lama, le altre due
figure “teocratiche” in qualche modo (mi aspetto qui una valanga di improperi
dagli yamatologi di rango) istituzionalmente paragonabili, come sosteneva
Fosco Maraini nel suo meraviglioso saggio “L’Agape
Celeste”, dedicato alle cerimonie di insediamento e ai riti di iniziazione
del nuovo imperatore, hanno una intensa corrispondenza privata, che a volte, ma
non sempre, viene resa pubblica. Ma non è certo un problema di poter leggere o
scrivere, liberamente, una lettera. Nei confronti della famiglia imperiale
“ristretta” (composta attualmente da 5 persone: l’Imperatore e
la sua consorte Michiko, il principe ereditario
Naruhito, la moglie Masako e la figlia
Aiko) si pone, sin dal momento in cui è stata approvata la
Costituzione (scritta e anche tradotta dagli americani) un vero e proprio
problema di “status” giuridico, di ruolo (formale, percepito, imposto).
Ricordiamo, a proposito, le recenti vicende della “povera” Masako, la
principessa “triste” precipitata in una lunga depressione per l’incapacità (o,
come qualcuno sostiene, il tentativo di opporsi) di sottostare ai ritmi
impressionanti del cerimoniale, di veri e propri diritti umani.
I membri della famiglia imperiale, tanto per cominciare, non sono
cittadini comuni. Non hanno un cognome, non sono registrati in
alcun koseki (stato di famiglia), non possiedono documenti personali,
non hanno diritto di voto né attivo né passivo. Da dèi ad apolidi,
insomma, visto che giuridicamente parlando, non sono “cittadini”. La cosa è
particolarmente complicata – e immaginiamo fastidiosa – per chi, come l’attuale
imperatrice Michiko e l’attuale principessa ereditaria
Masako un cognome, ed i relativi documenti ce li avevano. Hanno
dovuto formalmente rinunciarvi, consegnandoli ai funzionari del
Kunaicho, la potente, arcigna e decisamente poco trasparente “Agenzia
Imperiale”. Un migliaio di persone, solo 212 “statali” (quasi tutti di
provenienza dal ministero della Giustizia, degli Esteri e della polizia), gli
altri più meno “precari”, anche se alcuni lavorano come custodi, giardinieri,
camerieri da oltre trent’anni.
Lavorare per l’Agenzia Imperiale è un privilegio sociale
(molti lo fanno ancora oggi gratis) non certo economico. Niente di paragonabile
alle condizioni contrattuali, tanto per fare un esempio, dei
dipendenti del Quirinale. Per curiosità abbiamo guardato i
costi: l’Impero, che consta di 19 residenze, costa ai contribuenti giapponesi
222 milioni di euro, dieci milioni meno del Quirinale. Ho avuto occasione più di
una volta di entrare nel Palazzo Imperiale (una volta, nel 1986, in occasione
della visita del presidente Pertini mi ci perdei, finendo nelle cucine,
stupendomi del livello francamente inadeguato) e di avvicinare, sia pure per
pochi minuti, sia l’attuale imperatore Akihito che il principe
ereditario Naruhito. Con l’Imperatore, quando era ancora
principe della Corona, ci giocai anche a tennis, nel lontano 1984, venne ad
inaugurare l’annuale torneo della stampa estera. Lo battemmo 6-3, assieme al suo
Gran Ciambellano.
E se sulla figura del nonno/padre Hirohito continuo ad avere enormi dubbi
sull’operazione di “purificazione” compiuta dagli americani (in altre parole:
andava giustiziato, tanto per essere chiari) sui suoi discendenti non si può che
dire un gran bene. Persone gradevolissime, colte, attente. Sensibili. Ma
esprimono una grande tristezza, una gran sofferenza. Per carità, la vita di
corte può essere a volte pesante, ovunque, ma in genere ci si diverte pure. Se
solo una parte degli episodi che racconta Ben Mills nel suo
super censurato (dall’editore locale) libro su Masako “La
prigioniera del trono del Crisantemo” sono veri (come il ripetuto
“sequestro” del cellulare, il divieto di ricevere chiamate e visite e
addirittura, quando si parlava di possible divorzio, il divieto di aver libero
accesso al marito) la vita, nel Palazzo del Crisantemo, deve essere davvero
dura.
Chissà – ma sono pure speculazioni – quante volte i due avranno pensato di
svignarsela, nottetempo, e riemergere in qualche atollo. Forse è per questo che
non gli danno un passaporto.
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