venerdì 31 gennaio 2014

Dichiarazione fiscale per altre entrate economiche: introiti pubblicitari con Google Adsense (2)

Da Blogspot IlContribuenteOnesto 

Come dichiarare i redditi di Google Adsense

5 mar 2011


Non ho aperto questo blog da moltissimo tempo, ma da ancora meno ho fatto la prima conoscenza con Google adsense. Grazie a questo programma di Google, nel mio blog, come in quello di tanti altri blogger, vengono caricati dei box pubblicitari; i blogger ricevono piccoli compensi ogni volta che i siti pubblicizzati dai link vengono visitati.
Ammetto di aver letto velocemente i termini di contratto di adsense, ma al punto 12.9 dei Termini di contratto adsense c'è scritto: “Lei dovrà pagare tutte le imposte o gli oneri applicati da qualsiasi entità governativa in relazione alla Sua partecipazione al Programma. Google non effettuerà alcun rimborso IVA nei Suoi confronti”. Perciò mi sembra corretto dire che l'imposizione fiscale si baserà esclusivamente sulla normativa fiscale italiana.
Innanzitutto c'è da dire che non è sempre necessario aprire un partita iva per svolgere un'attività lavorativa; gli esempi più importanti sono il lavoro dipendente, il lavoro occasionale, il lavoro che produce redditi diversi ecc. E a me sembra che il reddito derivante dalla pubblicità con adsense appartenga proprio a quest'ultima categoria.

Secondo quanto disposto dalla lettera l), comma 1 dell'art. 67 del TUIR (Testo unico delle imposte sui redditi ex d.p.r. 917/86) sono redditi diversi, tra gli altri, “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”. Personalmente ho pochi dubbi che il nostro caso si configuri come obbligo di permettere. Avete mai visto quei grandi cartelloni pubblicitari in cima ai condomini residenziali? Bene, in quei casi siamo di fronte a un tipico obbligo di permettere: il condominio si impegna a mettere a disposizione di terzi i propri spazi liberi. Lo stesso succede con i nostri blog con l'eccezione che noi mettiamo a disposizione uno spazio virtuale. Tutto qui!
Inquadrata per bene la tipologia di reddito che produciamo con Google adsense non ci resta che capire quale sarà l'imposizione fiscale per questi redditi. Come la maggior parte dei redditi sulle persone fisiche anche i redditi diversi entrano a far parte della base imponibile Irpef e tassati perciò con le aliquote del 23, 27, 38, 41 e 43 per cento. Sempre il TUIR, al comma 5 dell'art. 13 ci dice però che ai redditi di cui ala lettera l), comma 1 dell'art. 67 spetta una detrazione di 1104 euro se il reddito non supera 4800 euro. E se fate i calcoli, il 23% di 4800 è pari a 1104. Volendo semplificare tutto all'osso, si può dire con certezza che CHI RICEVE DA ADSENSE UN REDDITO ANNUO PARI O INFERIORE A 4800 EURO (e non percepisce altri redditi!) NON DEVE DICHIARARE NULLA! Quindi non c'è nessuna evasione fiscale. Occorre tenere presente che per questi redditi la normativa prevede una ritenuta del 20% che non viene effettuata perché Google si serve di una società con sede in Irlanda, quindi soggetto estero che non applica la ritenuta in questione sugli importi che ci corrisponde.
Fin qui tutto bene (citazione di un bel film francese!). Il problema si presenta quando si superano i 4800 euro annui (ma chi è che guadagna così tanto con adsense!), ma soprattutto quando si percepiscono altri redditi. Ad esempio, cosa deve fare un lavoratore dipendente che percepisce redditi da adsense? La risposta è dura: dovrebbe dichiarare tali introiti, che andrebbero a sommarsi a tutti gli altri percepiti dallo stesso soggetto. Perché utilizzo il condizionale? Perché, come hanno scritto anche altri, è vero che l'attenzione dell'Agenzia delle Entrate non si è quasi mai concentrata sul popolo degli internauti “di piccolo cabotaggio” quali noi siamo. Infatti ragazzi, diciamoci la verità, quanto riusciremo a mettere da parte con adsense nel giro di un anno? Pochissimo! E sapete quanto costa all'Agenzia distrarre risorse e uomini per recuperare quei pochi spiccioli derivanti dalla pubblicità sui nostri sconosciuti blog? Molto più di quello che possono recuperare. Insomma, fatevi due conti e tirate le somme. Io ho cominciato da poco con adsense, non ho altri redditi da dichiarare e perciò finché non arriverò a 4800 euro di pubblicità sarò con la coscienza a posto. La domanda è: quando avrò altri redditi? Quando arriveranno (se!) vedremo. Tuttavia ci tengo a precisare che il mio blog non ospiterà per molto tempo la pubblicità di Google! Credo infatti che non sia redditizia, ma soprattutto che non sia "giusta". Intendo dire che non mi sembra giusto corrispondere un certo importo al blogger solo quando la pubblicità viene cliccata. I pagamenti si dovrebbero basare quasi esclusivamente sulle visualizzazioni. Col sistema attuale invece si può ben dire che tutte le volte che un visitatore guarda la pubblicità ma non la clicca a perderci qualcosa sono solo i blogger: la pubblicità raggiunge comunque il suo scopo ma i publisher non ne traggono benefici!

Google Adsense e i redditi della pubblicità


13 gen 2012

Circa un anno fa scrissi il post Come dichiarare i redditi di GoogleAdsense in cui mi pronunciai a favore della possibilità di operare nel settore delle affiliazioni senza aprire la partita Iva. In particolare ragionai nel senso di classificare i redditi di Google Adsense, come anche quelli erogati da altre società concorrenti, come redditi diversi derivanti da un obbligo di permettere. Da allora ho ricevuto numerose critiche (che accetto volentieri!) e credo sia arrivato il momento di fare chiarezza sulla mia posizione, che ricordo a tutti, non va intesa come consulenza fiscale professionale, perlomeno non in questa sede. 
Secondo l'articolo 3 del decreto Iva 633/1972 si considerano prestazioni di servizi «le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte» e quindi risulta chiaro che il reddito derivante da obbligo di permettere è rilevante ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. 
Ciononostante è in ragione della non abitualità della prestazione del servizio che può essere giustificato il conseguimento di un reddito diverso ex art. 67 del Tuir senza necessità di posizione identificativa Iva. 
Attenzione perché quando si parla di non abitualità non occorre cristallizzarsi sul significato temporale del termine, risultando utile una sua analisi anche in termini di professionalità delle prestazioni rese. 
Poiché la discussione sul tema ruota intorno all'apertura o meno della partita Iva, nessun testo normativo può rivelarsi più utile del decreto Iva 633/72. 
Il primo articolo del citato decreto solennemente dichiara che «l'imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio di imprese o nell'esercizio di arti e professioni […]». Proviamo allora a capire cosa intende il legislatore per “esercizio di imprese” ed “esercizio di arti e professioni”.
Riguardo alla prima delle due attività, l'articolo 4 recita che «per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali […]» di cui all'articolo 2195 del codice civile; riguardo invece alla seconda attività, l'articolo 5 recita che «per esercizio di arti e professioni si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche […]».
Arrivati sin qui la questione si restringe come fosse un collo di bottiglia che infine ci conduce a valutare caso per caso la sussistenza o meno dell'esercizio dell'attività per professione abituale
Per favore nei prossimi giorni non scrivetemi che al telefono o allo sportello il funzionario dell'Agenzia delle Entrate vi ha detto di aprire la partita Iva, perché è naturale che un esponente dell'amministrazione finanziaria propenda per il comportamento massimamente prudenziale. 
E d'altronde se il Fisco avesse in ogni caso ragione i tributaristi non sarebbero sempre lì, letteralmente a pendere dalle labbra dei giudici di Cassazione.
Ripeto ancora che occorre valutare caso per caso l'abitualità dell'attività esercitata in funzione di numerose variabili tra le quali vale la pena ricordare come le più importanti il volume d'affari generato e il peso specifico del reddito conseguito con l'attività di blogger rispetto al reddito complessivo del soggetto stesso. 
Non considerate questo post alla stregua di una consulenza professionale giacché mi rendo conto che in giro per la rete l'orientamento maggioritario è quello opposto. 
Io per me... continuo secondo quella che sono convinto sia un'interpretazione ragionevole della normativa.

Dichiarazione fiscale per altre entrate economiche: introiti pubblicitari con Google Adsense (1)

Da GuadagnoOnLine

DICHIARARE LE ENTRATE PERCEPITE CON GOOGLE ADSENSE


20 mar 2013

Chiunque attivi un account Google Adsense ed inserisce la pubblicità nei siti è soggetto ad un guadagno in denaro e quindi per le leggi vigenti deve pagare le tasse per questi introiti. Con Adsense si espongono degli annunci pubblicitari pertinenti alle pagine del sito e se questi vengono cliccati dal visitatore (ma si guadagna anche solo per impressions) Adsense riconosce un determinato guadagno.

Ma questi guadagni come possono o devono essere dichiarati nella denuncia dei redditi annuale in modo tale da essere in regola con il fisco?
I pagamenti di Google Adsense partono dall’Irlanda e sono emessi dalla società Google Ireland Ltd. (Gordon House Barrow Street Dublin 4) Registration Number: 368047; P.IVA IE6388047V. 
Google Ireland è una regolare azienda e agisce come sostituto di imposta della holding statunitense.

Chi percepisce guadagni da Google Adsense possono avere 2 tipologie di soggetti:
a) Privati
b) Aziende o liberi professionisti titolari di Partita IVA.


a) I Privati con Google Adsense
I privati non sono soggetti a ritenuta d’acconto, perché il pagamento proviene da uno stato membro della Comunità Europea.
Per dichiarare al fisco i proventi percepiti dalla collaborazione con Google Adsense, basterà dichiarare le somme ricevute in pagamento e nella compilazione del modello 730 inserire l’ammontare dei pagamenti ricevuti nell’anno nel riquadro denominato “redditi diversi”. Ovviamente questi redditi produrranno delle imposte da versare (se si produce il 730 significa che si ha un sostituto d’imposta, di solito il datore di lavoro, che semplicemente detrarrà le maggiori imposte). Unico requisito: non superare nell’anno fiscale i 5.000 Euro.
La cosa si complica se non si ha un lavoro dipendente e non si supera i 5.000 Euro. In questo caso si dovrà compilare il modello Unico, non avendo un sostituto d’imposta che adempie per lui agli obblighi fiscali. Il modello Unico prevede costi leggermente più alti per la compilazione e l’invio. Con il modello Unico le imposte che risultano da pagare non saranno detratte in busta paga, ma il Caaf o il commercialista, compilerà e ti consegnerà un modello di pagamento, chiamato F24, da consegnare in banca per il pagamento delle tasse, il 16/06 per il saldo e il primo acconto, il 30/11 per il secondo acconto.
Se non si ha partita IVA e i pagamenti superano i 5.000 Euro?
Se non volete rinunciare ai guadagni con Google Adsense dovete per forza aprire una partita Iva in quanto il limite dei 5.000 Euro è inderogabile e in caso di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria questa comminerà delle multe molto salate.


b) Titolari di Partita Iva con Google Adsense
Tutti i compensi ricevuti da titolari di Partita Iva devono essere fatturati. Come fare la fattura?
Partiamo dal presupposto che si tratta di una “prestazione di servizi in ambito intra-UE”. In questo caso farete la vostra fattura, con specificata la descrizione del servizio “prestazioni di servizi in ambito extra-UE per programmi di affiliazione web”, e inserite l’importo totale del pagamento, dal quale non va scorporata la ritenuta di acconto (in quanto la fattura è intra-UE) e al quale non va incorporata l’IVA, in quanto trattasi di prestazioni di servizi UE e che per tale motivo “non imponibili IVA art. 41 DPR 633/72” (questa dicitura va SEMPRE messa). Essendo ricavi intra-UE, e presupponendo che gli stessi non superino i 50.000 Euro, bisogna compilare un apposito modello ogni tre mesi, chiamato modello Intra, in particolare la sezione che interessa è denominata “INTRA 1 quater Sezione 1”. Per il primo trimestre dell’anno, la scadenza cade il 25 aprile, per il secondo trimestre il 25 luglio, per il terzo trimestre il 25 ottobre e per il quarto trimestre il 25 gennaio dell’anno dopo. Siccome si tratta di un modello telematico, da compilare e da spedire tramite un software che si può scaricare dal sito agenzia delle dogane, consiglio vivamente di rivolgersi a un commercialista, in quanto non è così intuitivo, e ci sono delle casistiche particolari per cui, a mio avviso, uno specialista del settore è molto più indicato per tutti questi adempimenti.

Sui "Paradisi Fiscali"...

Da Linkiesta

OLTRE IL NEGOZIATO ITALIA-SVIZZERA

Perché i paradisi fiscali fanno comodo agli Stati

Un accordo Roma-Berna vanificherebbe l’autodenuncia. Le debolezze della strategia Ocse anti-evasione

«La Svizzera intende arrivare a una soluzione sulle questioni fiscali aperte con l’Italia», ha detto il presidente della Confederazione Didier Burkhalter, nel discorso di apertura del Foro di Dialogo italo-svizzero, a Berna. Dallo stesso palco il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha fatto sapere che nel futuro accordo fra le due nazioni «non sarà possibile prevedere forme di anonimato o di riduzione delle sanzioni diverse da quelle previste nella nostra legge». E ha aggiunto: «Chi ha capitali in Svizzera deve capire che si sta chiudendo il cerchio, erano in una situazione per cui a livello internazionale c’erano Paesi che garantivano l’anonimato, ora i giorni per gli evasori che non mettono in ordine i conti con il proprio Paese sono numerati. Non ci sarà nessun condono né amnistia».
In sostanza, l’obiettivo delle parti è disciplinare il passato e collaborare sul futuro. Restano aperti anche il tema della black list e quello sulla tassazione degli oltre 60mila frontalieri italiani che lavorano nella Confederazione. Ma si tratta di appendici facili da inserire in coda all’accordo principale. Sia Roma che Berna infatti hanno ribadito di avere la volontà politica di chiuderne uno vantaggioso. Resta il fatto che la Svizzera vuole l’anonimato bancario e l’Italia no.  Mentre in comune c’è l’idea di chiudere prima dell’estate. Ma non subito. Appare dunque chiaro che nei primi mesi di quest’anno si giocherà la vera partita sotterranea. Nel frattempo Roma potrà valutare l’andamento del rimpatrio dei capitali tramite la voluntary disclosure, l’autodenuncia (un accordo immediato con la Svizzera ne azzererebbe totalmente i frutti). La possibilità di regolarizzare la situazione  pregressa, pagando con sconto ed evitando il penale solo per reati di poco conto, di fatto sarà possibile fino a luglio. Dal primo agosto scatterà il reato di autoriciclaggio. Nel frattempo le banche svizzere avranno cacciato i piccoli (sotto il milione di euro) correntisti italiani i quali si troveranno a dover regolarizzare per necessità. I grandi evasori potranno invece scegliere lidi più esotici (come Panama) e saranno soppiantati da nuovi clienti di nazionalità turca, russa o brasiliana. Molto ben accetti in Svizzera.
Se l’operazione dovesse filare liscia, fra sei mesi sia Italia che Svizzera potranno salvare la faccia. Roma otterrà di far cadere l’anonimato, senza retroattività, ma di fatto non ci sarà praticamente più nulla da regolarizzare. La Svizzera potrà accettare di denunciare i recidivi, ma saranno briciole. A quel punto l’accordo si firmerà da solo. Certo, in operazioni così complesse c’è sempre qualche imprevisto. Ma non c’è alcuna rottura diplomatica che faccia presagire altro e soprattutto, pur nel piccolo dei volumi valutari, sembra riflettersi l’andamento fallimentare degli accordi di scambio informativo di scala globale.

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Da quattro anni gran parte dei Paesi occidentali, sotto l’ombrello dell’Ocse, hanno impugnato le armi (soprattutto quelle della propaganda) per contrastare l’evasione fiscale e il mondo delle piazze finanziare offshore. Di solito dette paradisi fiscali. Ora i numeri ci dicono che la realtà è diversa. L’Unctad, associazione Onu che si occupa di scambi e sviluppo, ha diffuso una serie di dati relativi agli investimenti esteri diretti e liquidi verso una serie di Paesi. Le Isole Vergini britanniche - splendido arcipelago a forma di tartaruga, zeppo di spiagge bianche e di trust - ha attratto nel 2013 denaro per 92 miliardi di dollari posizionandosi al quarto posto nella relativa classifica mondale. Al primo ci sono gli Stati Uniti con 159 miliardi, poi Cina con 127, Russia con 94 miliardi (tutti in gas, petrolio e metalli). In sostanza le ex isole inglesi hanno visto arrivare nei propri confini più denaro che India e Brasile messi assieme. E oltre il 99% dei 92 miliardi sono finiti nei trust e nelle banche che continuano a mantenere quasi totale segretezza per poi fuoriuscire verso altre località. Per rendere l’idea del mare di denaro transitato, basta dividere  la somma per il numero di abitanti. Risultato: più di 3 milioni pro capite. Il tutto alla faccia delle liste bianche e grigie varate dopo il famoso G20 messicano in cui Obama dichiarò al mondo la propria volontà di combattere i paradisi fiscali. Gabriel Zucman, della School of Economics and Political Science e UC – Berkeley, lo ha detto chiaro e tondo: «I trattati bilaterali firmati dai principali paradisi fiscali hanno fallito». Sono serviti di fatto a far spostare miliardi di dollari in altri Paesi.
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«Piuttosto che il rimpatrio di fondi, gli evasori fiscali hanno semplicemente trasferito i loro depositi in paradisi non coperti da un trattato con il loro Paese d’origine», ha scritto in un articolo, pubblicato su American Economic Journal, assieme a Niels Johannesen. Zucman ha confrontato i dati sui depositi bancari bilaterali per le 13 principali piazze offshore, tra cui la Svizzera, il Lussemburgo e le Isole Cayman e ha verificato che complessivamente non c’è stata alcuna diminuzione. I valori totali si aggirano sempre attorno all’otto per cento della ricchezza finanziaria globale. Insomma, il sistema Ocse non funziona perché la tecnologia consente di muovere il denaro sempre più facilmente e gli accordi incrociati permettono di fatto di bypassare il nodo fondamentale. Ovvero quello di avere una sorta di catasto globale dei patrimoni finanziari consultabile dalle nazioni interessate. Secondo Zucman solo un simile registro taglierebbe le gambe all’evasione fiscale e ai vari loophole. Ma la domanda da porre è se ci sia una vera volontà di rendere tutto davvero così trasparente. La Cina si sta impegnando per creare nuove piazze offshore, in Tibet e a Samoa, mentre l’Inghilterra vede enormi potenzialità in Kenya. Il dato più interessante riguarda gli Stati Uniti.

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Tra il 2006  e il 2010 su 80 trattati firmati dagli Usa, Washington ha inoltrato meno di 900 richieste formali di informazioni. L’Inghilterra, che da due anni sta portando avanti la propria battaglia contro le grandi società del web perché si vede sottrarre gettito, non è altrettanto zelante quando si tratta di usare i propri accordi anti evasione.  A Jersey e Guernsey sono ancora domiciliate circa 33mila società alcune quotate nel Ftse 100 come Glencore, Shire Pharmaceuticals e WPP e allocati circa 500 miliardi di asset. Dal 2009, anno in cui il Fisco inglese ha chiuso l’accordo di scambio automatico d’informazioni sia con Jersey che con Guernsey, a Londra nessuno si è mai sognato di applicarlo se non per procedimenti penali. Probabilmente perché circa 250 miliardi sono investiti nella City. E fanno più che comodo. Allo stesso modo si può valutare lo strabismo politico di Barack Obama. Uno studio del 2013 della banca Mondiale ha dimostrato che delle 817 società di facciata comparse in 213 casi di corruzione investigati in tutto il mondo, ben 102 sono risultate registrate negli Stati Uniti (in particolare in Delaware, Nevada e Wyoming). Due volte quelle registrate a Panama. E ben sette volte quelle delle Isole Cayman. Nel 2011 Tim Geithner, allora Segretario al Tesoro Usa, ammise che a quella data negli Stati Uniti fossero depositate presso conti offshore somme non tassabili (perché si tratta di proventi generati all’estero) per circa 3 mila miliardi di dollari. Accettare la proposta di un registro unico avanzata dalla London School significherebbe, sebbene in buona parte sia di origine criminale, rinunciare a tutto questo denaro carsico che contribuisce  a tenere in piedi l’economia.

La gestione degli immigrati negli altri Paesi della UE


POPULISMO E CRISI ECONOMICA

Good bye Europa: il Belgio espelle i cittadini Ue

Nel 2013 sono stati rimandati in patria 2.712 cittadini Ue perché “troppo poveri”. 265 gli italiani

di , 1 gen 2014

È l’ultimo prodotto della crisi europea: l’espulsione di un cittadino comunitario da un Paese comunitario. Le ristrettezze economiche hanno portato alcuni Stati a rafforzare un diritto riconosciuto in modo ambiguo dalla legislazione dell’Ue: espellere i cittadini di altri Paesi membri che rappresentano un “peso eccessivo” per il sistema sociale.
Per intenderci, uno dei tre pilastri dell’Unione europea, caposaldo dei Trattati di Maastricht rischia di frantumarsi in mille pezzi. La ragione è semplice: la libertà di circolazione dentro i confini dell’Ue, costitutiva del modello europeo, è oggetto di attacchi, oggi più che mai, da parte di un mix indigesto di populismo reazionario e governi sempre più vigili alle frontiere  Come quello inglese di David Cameron, ripreso più volte dal Parlamento europeo perché ha alzato il tiro sugli ingressi dall’Est (dal 1 gennaio l’Ue ha aperto i confini a bulgari e rumeni in base a Schengen).
david cameron

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Insomma il sogno europeo sembra arrivato al capolinea. Almeno per i 2.712 cittadini dell’Unione che nel 2013 si sono visti recapitare un decreto di espulsione dalle autorità belghe.
Il Belgio è uno dei Paesi che ha più inasprito negli ultimi tempi le leggi sull’immigrazione.
dati forniti dall’Ufficio competente del governo belga si sono duplicati rispetto agli anni precedenti e rappresentano più del 9 per cento del totale degli stranieri che hanno dovuto abbandonare il territorio per non disporre di mezzi sufficienti a mantenersi.
Tra le comunità più colpite ci sono rumeni e bulgari, ma anche olandesi, francesi, spagnoli e italiani. Nell’anno appena concluso ben 265 italiani, armi e bagagli in mano, sono dovuti rientrare in tutta fretta nel Paese natio.

È successo di recente alla bolognese Silvia Guerra, 38 anni, artista di strada e madre di un bambino di otto anni, da tempo residente a Bruxelles, che si è vista recapitare un decreto di espulsione firmato dal sottosegretario all’immigrazione. Privi di risorse necessarie per assicurare il loro mantenimento e quello dei familiari, la donna italiana, così come gli altri cittadini nella stessa situazione, rappresenterebbero un peso insostenibile per il welfare del Paese.
separatismo europa

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Mostrare però la porta d’uscita a un europeo in pieno diritto non è certo lo stesso che farlo con qualsiasi altro straniero. Una portavoce dell’Ufficio Immigrazioni belga ci spiega la differenza. Quando le autorità dimostrano che la persona rappresenta “un onore eccessivo” per il sistema sociale (per esempio, se non ha lavorato per molto tempo e, di contro, usufruisce di aiuti sociali), si emette un’ordinanza di espulsione, che può essere accettata o meno. In caso di resistenza, il Belgio non ricorre certo alla forza: non mette i cittadini su un volo né li priva della loro libertà. Semplicemente gli chiude tutti i canali ufficiali in un Paese dove è essenziale avere un contratto di locazione (o di proprietà) per registrarsi in Comune e poter accedere alla sanità, all'istruzione e tutti i vantaggi che offre territorio.
Insomma «non li cacciamo con la forza, ma li cancelliamo dai registri ufficiali», spiega la portavoce, che sottolinea come queste persone rimangano così condannate a vivere in clandestinità, se non tornano nei loro Paesi d’origine. Ma nulla impedisce loro di spostarsi in un altro Paese e perfino di ritornare in Belgio: sia a Bruxelles che nelle altre capitali membri dell’Ue, il cittadino è assolutamente protetto durante i primi tre mesi di soggiorno. Dopo quel periodo però – e qui il nodo della questione – deve soddisfare almeno una di queste quattro condizioni: lavorare (o essere in cerca di lavoro se rimasto disoccupato), avere risorse sufficienti per mantenersi, avere un’assicurazione sanitaria per evitare di diventare un onere per l’assistenza sociale statale durante il soggiorno, essere studente. Per intenderci, tanto quanto riporta la direttiva europea.

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«Non conosco il caso specifico», dice Francesco Rossi dal Pozzo, professore di Diritto europeo all’Università statale di Milano. «Tuttavia, mi pare di capire che siano stati assunti provvedimenti di allontanamento di cittadini inattivi in quanto considerati un onere sociale per lo Stato ospitante. I riferimenti normativi sono contenuti nella direttiva 2004/38/CE e, precisamente, negli articoli 7 e 14. In sostanza, le persone inattive, devono disporre, per se stessi e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divengano un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un'assicurazione di malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro».
Eppure la stessa direttiva «riconosce il diritto di soggiorno del cittadino dell’Unione il quale, dopo avere esercitato un’attività lavorativa, si trovi in stato di disoccupazione o sia iscritto presso un ufficio di collocamento». Basta leggere poi anche il punto 3 dell’articolo 14 che recita: «Il ricorso da parte di un cittadino dell'Unione o dei suoi familiari al sistema di assistenza sociale non dà luogo automaticamente ad un provvedimento di allontanamento». Tanto basta per capire che l’ambiguità c’è.
hollande

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E infatti qualcosa si muove: alcuni politici hanno già protestato, come il deputato socialista dei francesi del Benelux Philip Cordery. Ma il Segretario di Stato per l’asilo, l’immigrazione e l’integrazione sociale belga Maggie de Block ha deciso di non replicare. La stessa de Block, del partito liberale fiammingo Open Vld, ha rafforzato la politica nazionale di asilo e immigrazione da quando ha assunto la circa a fine 2011. E pare non esser la sola. In Baviera, l’adozione di un provvedimento analogo è già in discussione. Il governatore Horst Seehofer, tifoso della cancelliera Angela Merkel, ha proposto di ricorrere all’espulsione dei cittadini europei, qualora colpevoli di abusi nei confronti del welfare tedesco. E questo proprio mentre l’altra faccia di Bruxelles, nella persona del commissario per l'Occupazione, gli affari sociali e l'integrazione  László Andor, presenta una guida pratica per frenare il fenomeno.
La pubblicazione, esposta la scorsa settimana, tratterà casi pratici per mettere fine al malessere generato in Paesi come il Regno Unito, la Germania o l’Olanda in merito al mal definito “turismo dei sussidi”, tipico degli europei più in difficoltà. Insomma, come a dire, non è più solo questione di un’Europa a due velocità, ma anche di un’Europa a porte chiuse. Che sta già girando la seconda mandata.

DATI FORNITI DALL’UFFICIO IMMIGRAZIONI DEL GOVERNO BELGA:
2013
Nombre de retraits de séjour de ressortissant UE: 2712
Top 10 nationalités:
Roumanie/Roemenië:                 816
Bulgarie / Bulgarije:                   393
Espagne / Spanje:                      323
Pays-Bas / Nederland:                305
Italie / Italië:                               265
France / Frankrijk:                      176
Pologne / Polen:                           66
Slovaquie / Slowakije:                   60
Portugal / Portugal:                      56
Royaume Uni /  Verenigd Kon:     25
 

2012
Nombre de retraits de séjour de ressortissants UE: 2407 
Roumanie / Roemenië:                  700
Espagne / Spanje                           336
Bulgarie / Bulgarije:                       282
Pays-Bas / Nederland:                   202
France / Frankrijk                         125
Italie / Italië                                  123
Slovaquie / Slowakije                    104
Pologne / Polen                             87
Portugal / Portugal                        44
Allemagne / Duitsland                   28

La doppia sede, fiscale e legale, è un vantaggio competitivo: il caso Fiat

Da Il Sole 24 Ore

Dopo Fiat, meno tasse e più investimenti. Ecco perché le società scelgono la doppia sede all'estero

di e 31 gen 2014

Non solo Fiat.
La scelta di avere una doppia residenza è un fenomeno che sta prendendo sempre più piede a livello internazionale. Da un lato la tutela di marchi e brevetti e leggi societari che consentono una maggiore flessibilità di operazioni. Dall'altro, il tentativo di un regime fiscale più vantaggioso. Si può quindi avere la residenza ai fini fiscali in un Paese diverso da quello in cui la società ha la sede legale, beneficiando ad esempio di sistemi societari più flessibili, di mercati dei capitali più convenienti o di piazze finanziarie più dinamiche mantenendo i benefici fiscali concessi da un diverso Stato. Ciò a patto che la localizzazione nel Paese che concede i benefici fiscali sia effettiva in termini di struttura e di persone che vi lavorano. Tra gli Stati prescelti dalle società spesso vi sono i Paesi Bassi per la sede legale e il Regno Unito per la residenza fiscale. 


Perché conviene la sede legale in Olanda
Tra i vantaggi di avere la sede legale in Olanda vi sono la possibilità di beneficiare di un'economia stabile e affermata e di una politica commerciale e di investimenti tra le più aperte al mondo. Il diritto societario olandese è inoltre estremamente flessibile e consente innovative operazioni sul capitale. Anche le norme sulla protezione di marchi e brevetti sono all'avanguardia. L'Olanda, al contrario del Regno Unito, ha poi il vantaggio (per così dire) di utilizzare come moneta l'euro. 

Residenza fiscale conveniente nel Regno Unito
Il Regno Unito, invece, sta attuando un programma di riduzione dell'imposizione fiscale che, a detta del Governo inglese, mira a far diventare il Regno Unito come «il miglior posto al mondo dove localizzare un'attività internazionale». L'aliquota fiscale sulle società è progressivamente passata dal 28% del 2010, al 21% nel 2014, e scenderà al 20% nel 2015, ben al di sotto della media europea. Anche a livello di fiscalità internazionale, il Regno Unito garantisce un'ampia rete di trattati contro le doppie imposizioni e nessuna ritenuta alla fonte sui dividendi distribuiti (le società inglesi funzionano bene quindi anche per gli investimenti negli Stati Uniti). Inoltre il Governo del Regno Unito ha anticipato che non intende aderire al programma di tassazione consolidata su base europea proposto a livello Ue.

Le regole da seguire
Ma come è possibile avere una doppia residenza? Mentre la residenza legale è un criterio di regola formale, individuabile nel luogo in cui la società ha la propria sede legale, la residenza fiscale può dipendere da diversi fattori. In linea di principio, la residenza fiscale si individua nel Paese in cui una società ha stabilito la sede legale, ma vi possono essere alcune eccezioni. Infatti, numerosi Paesi considerano residente fiscalmente una società non solo se ha nel proprio territorio la sede legale, ma anche ad esempio se vi ha il centro di direzione effettiva degli affari, o se nel Paese vi è l'oggetto principale dell'attività della società. Quando due Stati assumono criteri similari per stabilire la residenza fiscale, potrebbe accadere che una società si trovi ad essere considerata fiscalmente residente in due Paesi diversi. I trattati contro le doppie imposizioni mirano a dirimere tali controversie, che potrebbero generare una doppia tassazione in capo alla società. Nel caso di Paesi Bassi e Regno Unito, la Convenzione contro le doppie imposizioni firmata dai due Stati prevede che la residenza fiscale (e quindi il potere impositivo di tassare i redditi della società) sia assegnata allo Stato dove è stabilito il centro di direzione effettiva (indipendentemente quindi da dove sia la sede legale).
Ecco dunque che una società con sede legale ad Amsterdam, ma centro di direzione effettiva a Londra, avrà in Olanda la propria residenza legale, ma sarà considerata fiscalmente residente nel Regno Unito (è possibile anche attivare un procedura amichevole tra i due Stati per giungere a tale conclusione).

La tassa d'uscita
Il rovescio della medaglia è che, quando uno Stato è obbligato a rinunciare al proprio potere impositivo in favore di un altro Stato, considera il cambio di residenza fiscale come una cessione a un altro soggetto dei beni societari, applicando un'(ultima) imposizione sulle plusvalenze latenti che si considerano realizzate all'atto del trasferimento all'estero. È la cosiddetta «exit tax» che viene applicata da molti Paesi per evitare di perdere definitivamente la potestà impositiva su redditi prodotti nel passato nel proprio territorio, ma che normalmente sono tassati solo al momento del loro realizzo effettivo, e quindi saranno tassati nell'altro Paese. Ciò a meno che nello Stato di partenza si "lasci" una stabile organizzazione, ovvero un'entità ancora assoggettata a tassazione per i redditi prodotti nello Stato ove è ubicata.