venerdì 31 gennaio 2014

Sui "Paradisi Fiscali"...

Da Linkiesta

OLTRE IL NEGOZIATO ITALIA-SVIZZERA

Perché i paradisi fiscali fanno comodo agli Stati

Un accordo Roma-Berna vanificherebbe l’autodenuncia. Le debolezze della strategia Ocse anti-evasione

«La Svizzera intende arrivare a una soluzione sulle questioni fiscali aperte con l’Italia», ha detto il presidente della Confederazione Didier Burkhalter, nel discorso di apertura del Foro di Dialogo italo-svizzero, a Berna. Dallo stesso palco il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha fatto sapere che nel futuro accordo fra le due nazioni «non sarà possibile prevedere forme di anonimato o di riduzione delle sanzioni diverse da quelle previste nella nostra legge». E ha aggiunto: «Chi ha capitali in Svizzera deve capire che si sta chiudendo il cerchio, erano in una situazione per cui a livello internazionale c’erano Paesi che garantivano l’anonimato, ora i giorni per gli evasori che non mettono in ordine i conti con il proprio Paese sono numerati. Non ci sarà nessun condono né amnistia».
In sostanza, l’obiettivo delle parti è disciplinare il passato e collaborare sul futuro. Restano aperti anche il tema della black list e quello sulla tassazione degli oltre 60mila frontalieri italiani che lavorano nella Confederazione. Ma si tratta di appendici facili da inserire in coda all’accordo principale. Sia Roma che Berna infatti hanno ribadito di avere la volontà politica di chiuderne uno vantaggioso. Resta il fatto che la Svizzera vuole l’anonimato bancario e l’Italia no.  Mentre in comune c’è l’idea di chiudere prima dell’estate. Ma non subito. Appare dunque chiaro che nei primi mesi di quest’anno si giocherà la vera partita sotterranea. Nel frattempo Roma potrà valutare l’andamento del rimpatrio dei capitali tramite la voluntary disclosure, l’autodenuncia (un accordo immediato con la Svizzera ne azzererebbe totalmente i frutti). La possibilità di regolarizzare la situazione  pregressa, pagando con sconto ed evitando il penale solo per reati di poco conto, di fatto sarà possibile fino a luglio. Dal primo agosto scatterà il reato di autoriciclaggio. Nel frattempo le banche svizzere avranno cacciato i piccoli (sotto il milione di euro) correntisti italiani i quali si troveranno a dover regolarizzare per necessità. I grandi evasori potranno invece scegliere lidi più esotici (come Panama) e saranno soppiantati da nuovi clienti di nazionalità turca, russa o brasiliana. Molto ben accetti in Svizzera.
Se l’operazione dovesse filare liscia, fra sei mesi sia Italia che Svizzera potranno salvare la faccia. Roma otterrà di far cadere l’anonimato, senza retroattività, ma di fatto non ci sarà praticamente più nulla da regolarizzare. La Svizzera potrà accettare di denunciare i recidivi, ma saranno briciole. A quel punto l’accordo si firmerà da solo. Certo, in operazioni così complesse c’è sempre qualche imprevisto. Ma non c’è alcuna rottura diplomatica che faccia presagire altro e soprattutto, pur nel piccolo dei volumi valutari, sembra riflettersi l’andamento fallimentare degli accordi di scambio informativo di scala globale.

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Da quattro anni gran parte dei Paesi occidentali, sotto l’ombrello dell’Ocse, hanno impugnato le armi (soprattutto quelle della propaganda) per contrastare l’evasione fiscale e il mondo delle piazze finanziare offshore. Di solito dette paradisi fiscali. Ora i numeri ci dicono che la realtà è diversa. L’Unctad, associazione Onu che si occupa di scambi e sviluppo, ha diffuso una serie di dati relativi agli investimenti esteri diretti e liquidi verso una serie di Paesi. Le Isole Vergini britanniche - splendido arcipelago a forma di tartaruga, zeppo di spiagge bianche e di trust - ha attratto nel 2013 denaro per 92 miliardi di dollari posizionandosi al quarto posto nella relativa classifica mondale. Al primo ci sono gli Stati Uniti con 159 miliardi, poi Cina con 127, Russia con 94 miliardi (tutti in gas, petrolio e metalli). In sostanza le ex isole inglesi hanno visto arrivare nei propri confini più denaro che India e Brasile messi assieme. E oltre il 99% dei 92 miliardi sono finiti nei trust e nelle banche che continuano a mantenere quasi totale segretezza per poi fuoriuscire verso altre località. Per rendere l’idea del mare di denaro transitato, basta dividere  la somma per il numero di abitanti. Risultato: più di 3 milioni pro capite. Il tutto alla faccia delle liste bianche e grigie varate dopo il famoso G20 messicano in cui Obama dichiarò al mondo la propria volontà di combattere i paradisi fiscali. Gabriel Zucman, della School of Economics and Political Science e UC – Berkeley, lo ha detto chiaro e tondo: «I trattati bilaterali firmati dai principali paradisi fiscali hanno fallito». Sono serviti di fatto a far spostare miliardi di dollari in altri Paesi.
offshore

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«Piuttosto che il rimpatrio di fondi, gli evasori fiscali hanno semplicemente trasferito i loro depositi in paradisi non coperti da un trattato con il loro Paese d’origine», ha scritto in un articolo, pubblicato su American Economic Journal, assieme a Niels Johannesen. Zucman ha confrontato i dati sui depositi bancari bilaterali per le 13 principali piazze offshore, tra cui la Svizzera, il Lussemburgo e le Isole Cayman e ha verificato che complessivamente non c’è stata alcuna diminuzione. I valori totali si aggirano sempre attorno all’otto per cento della ricchezza finanziaria globale. Insomma, il sistema Ocse non funziona perché la tecnologia consente di muovere il denaro sempre più facilmente e gli accordi incrociati permettono di fatto di bypassare il nodo fondamentale. Ovvero quello di avere una sorta di catasto globale dei patrimoni finanziari consultabile dalle nazioni interessate. Secondo Zucman solo un simile registro taglierebbe le gambe all’evasione fiscale e ai vari loophole. Ma la domanda da porre è se ci sia una vera volontà di rendere tutto davvero così trasparente. La Cina si sta impegnando per creare nuove piazze offshore, in Tibet e a Samoa, mentre l’Inghilterra vede enormi potenzialità in Kenya. Il dato più interessante riguarda gli Stati Uniti.

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Tra il 2006  e il 2010 su 80 trattati firmati dagli Usa, Washington ha inoltrato meno di 900 richieste formali di informazioni. L’Inghilterra, che da due anni sta portando avanti la propria battaglia contro le grandi società del web perché si vede sottrarre gettito, non è altrettanto zelante quando si tratta di usare i propri accordi anti evasione.  A Jersey e Guernsey sono ancora domiciliate circa 33mila società alcune quotate nel Ftse 100 come Glencore, Shire Pharmaceuticals e WPP e allocati circa 500 miliardi di asset. Dal 2009, anno in cui il Fisco inglese ha chiuso l’accordo di scambio automatico d’informazioni sia con Jersey che con Guernsey, a Londra nessuno si è mai sognato di applicarlo se non per procedimenti penali. Probabilmente perché circa 250 miliardi sono investiti nella City. E fanno più che comodo. Allo stesso modo si può valutare lo strabismo politico di Barack Obama. Uno studio del 2013 della banca Mondiale ha dimostrato che delle 817 società di facciata comparse in 213 casi di corruzione investigati in tutto il mondo, ben 102 sono risultate registrate negli Stati Uniti (in particolare in Delaware, Nevada e Wyoming). Due volte quelle registrate a Panama. E ben sette volte quelle delle Isole Cayman. Nel 2011 Tim Geithner, allora Segretario al Tesoro Usa, ammise che a quella data negli Stati Uniti fossero depositate presso conti offshore somme non tassabili (perché si tratta di proventi generati all’estero) per circa 3 mila miliardi di dollari. Accettare la proposta di un registro unico avanzata dalla London School significherebbe, sebbene in buona parte sia di origine criminale, rinunciare a tutto questo denaro carsico che contribuisce  a tenere in piedi l’economia.

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