Da Corriere.it
La vendita al fondo americano GIP
Una storia aziendale di successo, però il nostro capitalismo non fa il salto
di Dario Di Vico, 10 feb 2018
L’operazione che porterà Ntv-Italo nel portafoglio del fondo americano Gip ha rispettato tutti i crismi del mercato.
E non si può certo dire che la compagine degli azionisti italiani non abbia dimostrato abilità e velocità di giudizio nel cogliere l’opportunità offerta loro, eppure sapere che Italo diventerà Amerigo — come si è scherzosamente detto — lascia l’amaro in bocca.
Conosco, rispetto e condivido quasi tutte le argomentazioni che gli analisti dell’ortodossia liberale hanno avanzato in questi giorni — penso all’Istituto Bruno Leoni — ma nessuna di esse può evitare quella sensazione.
Nell’exploit di Italo molto ha contato la capacità del management di rivedere il primitivo modello di business, è stato importante capire come a fare la differenza non è tanto la possibilità di guardare un film in viaggio quanto prezzo e frequenza delle corse.
Effetto metropolitana.
Un riposizionamento che è stato realizzato in corsa e che merita applausi.
È anche vero che questa straordinaria storia di successo è stata resa possibile — per una volta in Italia — da un assetto regolatorio e normativo sicuro e prevedibile che nel tempo ha consentito, unico mercato in Europa, che due imprese potessero confrontarsi e gareggiare nell’alta velocità.
Poi sicuramente la ripresa quantitativa dell’economia reale e una sua componente qualitativa — che ha visto aumentare i pendolari del lavoro anche tra le professionalità medio-alte di città come Bologna e Torino — ha fatto il resto. Ma non è tutto.
C’è un’altra considerazione che è emersa nei commenti post-vendita ed è stata fatta propria anche dal ministro Graziano Delrio.
Lo Stato italiano in 11 anni ha investito 32 miliardi di euro sull’alta velocità e, assieme al quadro regolatorio di cui sopra, ha generato una cornice favorevole di cui hanno giovato gli azionisti di Italo nella fase della compravendita.
Riuscendo ad assicurarsi una straordinaria remunerazione del loro investimento iniziale.
Lo Stato però non incassa nessun dividendo, investendo nella rete confidava che essa venisse saturata dall’attività del maggior numero di player possibili e si deve accontentare che la storia sia andata così.
Non sarebbe però corretto auspicare — da parte degli azionisti di Italo — che una quota dei soldi incassati con la vendita sia reinvestita in Italia?
Generando nuove attività o rafforzandone di esistenti (nella nostra logistica-Cenerentola, ad esempio) e creando così potenzialmente le condizioni di nuovi successi? Del resto proprio la compagine di Ntv, come le Fs, hanno mostrato nella gestione dei treni super-veloci una cultura del servizio e un’attenzione al consumatore che nella nostra tradizione (vedi Alitalia) erano stati assenti.
Comunque al di là delle dispute del giorno dopo sull’affare Ntv appare sempre più evidente quella che potremmo chiamare la maledizione della taglia large del capitalismo italiano.
Anche le migliori storie di successo alla fine si infrangono sulla difficoltà di crescere di botto, è come se si arrivasse a un bivio e gli imprenditori italiani tra correre per raddoppiare e scegliere di vendere finissero almeno 4 volte su 5 per prendere la seconda via.
Il risultato è che il sistema delle imprese assomiglia a un trapezio non più a una piramide, il vertice alto non c’è più. In molti casi quando era teoricamente possibile che un’azienda a capitali italiani diventasse polo aggregante è successo il contrario.
Se volessimo fare una cronistoria potremmo risalire alla vendita dell’Italtel alla francese Telettra/Alcatel o a operazioni — come ha sottolineato l’economista Fabrizio Onida — tipo la vendita di Ansaldo Sts alla giapponese Hitachi o ancora al passaggio dell’Italcementi ai tedeschi della Heidelberg, fino ai giorni nostri con il recente merger Luxottica-Essilor che fa accapigliare gli addetti ai lavori su quale sia la bandiera che sventolerà alla fine del percorso, l’italiana o la francese.
Si tratta in tutti i casi di operazioni confezionate con ampio rispetto delle regole di mercato — come nell’ancor più recente Opa della svizzera Richemont sulla Ynap lanciata in orbita da Federico Marchetti — e con altrettanto sicura valorizzazione degli asset ceduti ma che lasciano la stessa sensazione di oggi.
L’amaro in bocca anche a chi non si professa patriota economico né per cultura né per convincimento politico.
È vero che in diversi casi gli investimenti stranieri in Italia hanno permesso all’azienda-preda o alla catena dei fornitori una crescita che la famiglia proprietaria non avrebbe potuto dare.
Penso al caso Sanpellegrino-Mentasti-Nestlè oppure all’ingresso dei francesi del lusso nella Riviera del Brenta ma esistono anche casi opposti — su tutti il passaggio di Parmalat ai francesi di Lactalis — che gridano ancora vendetta e che resteranno nella storia degli autogol del made in Italy.
Lo stesso Delrio ha sostenuto che in Italia mancano quei fondi di investimento capaci di mettere in cantiere operazioni crossborder di grande rilievo e ciò acuisce la sensazione di trovarsi in un capitalismo senza capitali. Dove persino avventure come quella di Fincantieri in Francia o di Atlantia a caccia della leadership europea delle autostrade appaiono solo delle eccezioni.
Siamo bravi, se non bravissimi fino a una determinata soglia ma la taglia large no, non sembra fatta per noi.