Il caso Bosch: quelle tasse che l’Agenzia delle Entrate non vuole restituire
La multinazionale tedesca viene accusata di evasione fiscale.
Per sottrarsi al contenzioso tributario, paga subito 300 milioni di euro. Poi il
Tribunale di Milano la assolve da ogni accusa. Ma quei
soldi...
13 mag 2014
La Procura della repubblica di Milano ha deciso di non impugnare la sentenza
con cui il giudice dell’udienza preliminare, dottor Gennari, ha prosciolto i
vertici della Bosch da un’accusa di evasione fiscale, in cui si contestavano
miliardi di euro sottratti al fisco italiano nell’ultimo decennio.
"Il fatto non
sussiste" ha sentenziato il giudice il 12 febbraio scorso, non c’è stata alcuna
evasione fiscale, le tasse sono state regolarmente pagate in Germania.
La
sentenza è divenuta irrevocabile.
Due anni prima, nel dicembre 2012, l’Agenzia delle entrate, che ha dato
origine al procedimento penale, ha incassato oltre 300 milioni di euro,
attraverso un versamento "spontaneo" della multinazionale tedesca, che pur di
definire immediatamente la contestazione ha pagato per sottrarsi al contenzioso
tributario. Accertata nel procedimento penale milanese l’insussistenza del fatto
illecito all’origine della contestazione tributaria, l’Agenzia delle entrate
italiana restituirà i 300 milioni di euro versati? No.
Pur avendo un giudice italiano stabilito che la società tedesca ha già nel
tempo regolarmente e puntualmente pagato ogni tassa nel proprio paese, e
parliamo di centinaia di milioni all’anno, l’autorità fiscale italiana, in
omaggio all’Europa unita, non riconosce l’imposta versata in Germania, per cui
trattiene i 300 milioni ricevuti a Natale del 2012. Sarà una lunga e costosa
procedura arbitrale internazionale a definire la questione.
Per ora e per
molti anni a venire, Bosch ha la certezza di avere pagato due volte le tasse
per lo stesso reddito prodotto in Germania (alla medesima aliquota del 44
per cento circa). Una prima volta in Germania anno per anno, e una seconda volta
in Italia "spontaneamente", guarda caso a seguito di una contestazione che
prospettava scenari apocalittici.
Chiediamoci: la società tedesca che agisce pressoché senza scopo di lucro e
che nell’ultimo quinquennio ha devoluto oltre 1 miliardo di euro in opere
benefiche in tutto il mondo, avrà ancora la stessa voglia di investire e creare
posti di lavoro in Italia?
Forse l’Agenzia delle entrate all’indomani della
sentenza del giudice milanese ha trattenuto a titolo di beneficenza natalizia i
300 milioni ricevuti nel dicembre 2012?
In quanti sarebbero sopravvissuti a una
sciagura economica del genere? Quante tra le piccole e medie imprese nel
corso degli anni sono defunte per una pressione fiscale e per vicende
analoghe? Non esistono dati e riscontri in proposito, come non esiste un
saldo tra il reddito venuto meno per la fine (o migrazione all’estero) di
imprese inaridite dal fisco e il gettito coattivamente recuperato dallo Stato
italiano. Si corre il miope rischio, come nel caso Bosch, di perdere un valido
contribuente, con decine di migliaia di posti di lavoro, nel tentativo di
incassare imposte dal dubbio fondamento giuridico e ai limiti della violenza
morale.
Perché mai un’impresa capace di fare ricerca e generare migliaia di
posti di lavoro dovrebbe produrre e rimanere in Italia, correndo simili rischi,
con un cuneo fiscale da record, flessibilità del mercato del lavoro inesistente
e pressione fiscale alle stelle?
Le multinazionali osservano la semplice regola del budget, ogni scelta deve
sempre essere frutto di una previsione, di comparazioni tra costi e benefici.
Una vera e propria religione, verrebbe da dire "quod non est in budget non est
in mundo" e in buona sostanza è così. Non si può prevedere solo ciò che non
si può conoscere, e dunque non si può operare in mercati che non si conoscono
a fondo.
Dunque l’indice italiano di attrazione dell’investimento estero si misura con
la capacità per la politica di dare certezze. Rendere certi e conoscibili i
criteri decisionali estranei al core business (per esempio giustizia, fisco e
sindacati). Tanto più trasparenti e uniformi sono queste decisioni tanto più
il mercato diventa valido e appetibile.
Proviamo a comprendere lo stato d’animo di un industriale straniero di fronte
alla giustizia italiana, alla possibilità di subire forti perdite per
lungaggini giudiziarie, o finire in galera per una interpretazione fiscale nuova
e non condivisa (per esempio Bosch, Google, Apple), o essere condannati per
omicidio senza avere mai messo piede sulla scena del crimine (caso Thyssen).
Esistono purtroppo leggi italiane che consentono queste illogiche conseguenze e
magistrati che applicano quelle leggi non curandosi delle ricadute.
Provi
infine il nostro presidente del Consiglio Matteo Renzi, che è già giustamente
intervenuto per annunciare una radicale semplificazione della legislazione
fiscale e la prossima abolizione dell’abuso di diritto, ad attirare i capitali
stranieri.
Il presidente Renzi potrà in questo contesto raccontare, per esempio agli
amici investitori tedeschi, che ove mai avessero un problema tributario in
Italia, anche solo interpretativo, saranno giudicati esattamente come i
cittadini italiani: da giudici che dipendono dallo stesso datore di lavoro dei
colleghi dell’Agenzia delle entrate, cioè dal ministero dell’Economia, che per
definizione incassa le tasse e quindi ha interesse a incassarne sempre di più.
L’arbitro veste la stessa maglia di una delle due squadre.
I giudici tributari italiani, specie veramente peculiare, che non trova
eguali in altri stati moderni: "volontari per concorso", pagati a cottimo ben 20
euro per sentenza, anche quando decidono su milioni di euro di tasse, e dunque
costretti ad avere un secondo o terzo lavoro, non sempre nel campo del diritto o
nelle professioni giuridiche.
Anche questo aspetto della nostra giustizia
andrebbe urgentemente rivisto e di certo non incentiva e rassicura avventori e
creatori di posti di lavoro.Ma per favore.... tutto ciò non lo diciamo in
Europa.
Nessun commento:
Posta un commento