Finanza: Cina, Usa e Grecia, i "focolai" di una nuova recessione
Et voilà, stavolta è successo.
Nessun cavaliere
bianco è infatti giunto all’ultimo momento in soccorso della Shanghai Chaori
Solar Energy, azienda che ieri non ha pagato i creditori delle sue obbligazioni
per un valore di 14,7 milioni di dollari, dando così vita al primo default nella
storia della Cina, da quando il governo ha avviato la contrattazione pubblica
dei titoli di debito nel 1997.
Il bond di Chaori Solari, in scadenza nel 2017,
era stato emesso nel 2012 con un una cedola annuale variabile che quotava
l’8,98%. L’emissione, da BBB+, aveva già ricevuto un downgrade a CCC da Pengyuan
Credit Rating. E ovviamente adesso il mercato si chiede: sarà l’inizio di un
default a catena delle società cinesi?
Secondo Brian Coulton, global emerging market
strategist a Londra per conto di Legal & General Investment Management, «nel
breve termine vedremo i rendimenti delle cedole crescere, ma questo è il
presupposto per creare un mercato migliore e dare un prezzo più corretto al
rischio di credito». Forse, ma il rendimento dei bond a cinque anni AA- è
passato al 7,77% di mercoledì, ai massimi da quattro mesi, per raggiungere
giovedì il 7,82%.
Ora, occorre fare attenzione a tre cose.
Primo, il giudizio
AA- o inferiore in Cina corrisponde a obbligazioni di tipo non-investment grade:
andate a vedere quante sono quelle sul mercato e capirete quanto il rischio di
default a catena sia reale.
Secondo, di converso, con 5 triliardi di riserve
valutarie estere, la Cina è in grado di tamponare quei default senza squassare
il sistema a livello globale, ma la Banca centrale, proprio alla vigilia del
Comitato centrale del partito, è intenzionata a stringere i cordoni dei credito
per sgonfiare l’enorme rischio sostanziato dall’esorbitante sistema bancario
ombra. Quindi, a meno di rischi seri, difficilmente entrerà in scena per salvare
fondi finiti underwater.
Terzo, la situazione cinese è molto ma molto delicata.
Negli ultimi tre giorni si è registrato il peggior calo da quattro mesi a questa
parte sui mercati del credito cinesi e l’indicatore di crisi di credito del
Paese (basato sugli spread dei bond a 2 anni e sullo swap a 2 anni) sta mandando
segnali inequivocabili di un sistema che sta grippando, come ci dimostra il
primo grafico a fondo pagina.
Il problema non è la mancanza di credito, basti
guardare il livello dello Shibor a una settimana (riportato nel secondo
grafico), bensì la mancanza di volontà delle banche e dei soggetti finanziari di
prestarsi quel denaro tra loro nel mercato interbancario, come ci dimostra il
terzo grafico che mette in correlazione anche l’andamento azionario dello
Shanghai Composite e il cross con il dollaro. Insomma, una ratio che ricorda
molto quella delle banche occidentali nei mesi precedenti al crollo Lehman: i
soldi ci sono, ma l’interbancario è congelato dalla paura.
C’è però un dato contrastante e inquietante che
giunge sempre dalla Cina e che getta una luce nuova e sinistra sugli accadimenti
di queste ore in Ucraina: il governo di Pechino, infatti, ha deciso di aumentare
del 12,2% il suo budget per la Difesa, portandolo a 132 miliardi di dollari, nel
prossimo anno fiscale, un dato completamente scollegato al tasso di crescita
annuale del 7,5% del gigante asiatico.
L’industria bellica è quindi la dinamo
scelta per riattivare il turbo della crescita? Oppure la Cina ha voglia di
flettere i muscoli e intende far vedere molto bene che lo sta facendo? Non so,
ma ci sono molte, troppe notizie che stanno uscendo in questi giorni e che
vengono ignorate dai media.
Come ad esempio il fatto che in Grecia sia arrivato
il momento dei gonzi, l’operazione “paper for dummies” sta partendo, visto che
le banche semi-fallite e totalmente nazionalizzate del Paese stanno per
lanciarsi in un’operazione di finanziamento sull’open market con emissioni
obbligazionarie.
Direte voi, con l’indice di Borsa di Atene top-perfomer da
inizio anno con il +19% (+30% nell’intero 2013), trainato proprio dagli istituti
bancari divenuti - attraverso i covered warrant però, non le azioni - il pasto
preferito degli hedge funds Usa, ovviamente ci sarà la fila per acquistare quei
bond. Non lo escludo, anzi ne sono quasi certo.
Calcolate che il mercato delle obbligazioni bancarie
è enorme, solo in Italia è il secondo veicolo di investimento per la clientela
retail, ovvero le famiglie: nell’ultimo anno questa categoria ha acquistato
obbligazioni bancarie per 122 miliardi di euro, contro i soli 26 miliardi
comprati da investitori professionisti come i fondi. E attenzione, in caso di
default o nazionalizzazione con haircut o bail-in le obbligazioni bancarie non
sono come i conti correnti: non hanno margine di salvaguardia, si perde tutto.
Bene, al netto di tutto questo, Piraeus Bank - salvata dalla bancarotta non una
ma due volte - inaugurerà a breve la nuova stagione di emissioni con una
copertura per 1,75 miliardi di euro, il tutto per cercare di rimettersi in sesto
e riuscire a superare gli stress test della Bce, a fronte di necessità di
capitale calcolate dalla Banca centrale ellenica in ulteriori 425 milioni di
euro.
Ci credete? Credete a queste cifre, visto il dato
sulle sofferenze bancarie greche che vi ho fornito a inizio settimana?
Oltretutto, nessuno sa il vero stato di salute d quelle banche. La troika stima
infatti necessità di capitale per gli istituti ellenici tra gli 8,5 e i 9
miliardi di euro, mentre la Banca centrale greca lo limita a 6,4 miliardi:
soltanto la scorsa estate, otto mesi fa, quelle stesse banche sono state
ricapitalizzate per qualcosa come 28 miliardi di euro. E la questione non è di
lana caprina, visto che se le banche non riescono a racimolare capitale sui
mercati, l’Hellenic Financial Stability Fund, braccio armato della troika,
prenderà il controllo della situazione.
Il problema sta tutto nel giochino che le agenzie di
rating hanno fatto qualche mese fa per aiutare i creditori della Grecia a
massimizzare i guadagni prima di scaricare tutto e lasciare Atene al suo
destino. Il Paese, infatti, ora è in categoria di “mercato emergente” e rientra
nell’indice Msci Emerging Markets, un qualcosa di imbarazzante ma anche di
straordinariamente favorevole, visto che per quanto ridotta male la Grecia è in
grado di performare molto meglio di altri suoi partner in questa categoria e, di
fatto, utilizzare quei dati positivi per porli a raffronto con altri paesi
dell’eurozona, per quanto questi non siano classificati come “emergenti” ma
“sviluppati”.
È il classico gioco di specchi e sta funzionando
alla grande. La Grecia sta campando di dissimulazione e concorrenza sleale,
visto che va in outperforming rispetto agli altri mercati emergenti grazie al
ciclo in atto, alla correlazione con l’eurozona e alle sue valutazioni: detto
fatto, tutti sono overweight sugli assets ellenici, almeno finora. Ma quando si
comincia a lanciarsi in campagne obbligazionarie, meglio leggere trecento volte
i prospetti.
Direte voi, c’è comunque l’America a salvare capra e
cavoli, stante i dati di crescita, già pesantemente visti al ribasso dal governo
a inizio mese, a dire il vero. E sapete perché? Al netto del dato reso noto ieri
sulla disoccupazione, che in febbraio ha toccato il 6,7% contro le attese del
6,6% (stesso dato di gennaio), con 10,5 milioni di americani senza lavoro, gli
Usa stanno infatti per tornare dritti dritti in recessione.
Sono dodici le voci che parlano questa lingua e ve
le elenco.
1) La richiesta di nuovi mutui negli Usa è scesa al livello più basso
degli ultimi venti anni.
2) Radio Shack, catena leader nella vendita di
materiale legato a informatica e hi-fi, ha annunciato la chiusura di oltre 1000
punti vendita in tutto il Paese.
3) L’indice Ism Services è al minimo di quattro
anni, come vi ho detto ieri e il dato occupazionale del settore ha subito il
peggior calo dal fallimento di Lehman Brothers.
4) Il programma sanitario noto
come Obamacare sta già devastando l’industria farmaceutica Usa, con il rischio
di impatti negativi sui profitti senza precedenti.
5) Le revenues sul trading
delle grandi banche di Wall Street stanno calando, con giganti come Citigroup e
JP Morgan Chase che hanno conosciuto il quarto calo consecutivo nel primo
trimestre di quest’anno, solitamente il momento migliore dell’anno a livello di
profitti.
6) Proprio JP Morgan Chase ha già annunciato il taglio di migliaia di
posti di lavoro.
7) Moody’s ha abbassato di nuovo il rating di credito della
città di Chicago, ora a tre gradini dallo status di “spazzatura”: insomma,
Detroit sta per ricevere compagnia, altro che il “salva-Roma”.
8) L’economia
statunitense ha perso 2,87 milioni di posti di lavoro nel mese di gennaio: negli
ultimi dieci anni, l’unica altra volta in cui gli Usa hanno conosciuto
un’emorragia simile fu nel gennaio 2009, al picco massimo della recessione.
9)
In gennaio, il reddito reale disponibile negli Usa ha conosciuto il peggior calo
dal 1974.
10) Solo il 35% degli americani ha detto di stare finanziariamente
meglio dell’anno precedente.
11) Le vendite a livello globale di Caterpillar,
cartina di tornasole dell’attività nel settore infrastrutturale e delle
costruzioni, stanno calando da quattordici mesi di fila.
12) Nelle ultime tre
settimane, i fondamentali macro delle 10 maggiori economie del mondo sono
letteralmente collassati al livello più rapido da quattro anni questa parte,
conoscendo il calo più consistente dal crollo di Lehman Brothers.
E nonostante negli Usa - soprattutto alla Fed - vada
molto di moda la logica del “blame the weather”, ovvero dare la colpa della
mancata ripresa al maltempo che ha flagellato gli Usa questo inverno, i dati ci
dicono che lo scorso gennaio è stato il quarto più caldo da quando vengono
registrati questi dati, notizia pubblicata dal New York Times.
Attenzione, quindi, la situazione è tutt’altro che rosea. E una bella crisi
bellica potrebbe essere la migliore scappatoia per evitare un altro 2008. Con i
costi che questa imporrebbe, certo, ma per le regole della grande finanza questi
sono solo danni collaterali. Occorre mantenere in vita il Frankenstein creato
dalla Fed. A qualsiasi costo.
Non ci credete?
Guardate quest’ultimo grafico: ci
mostra l’ultimo sondaggio rispetto alla “bearishness”, ovvero all’atteggiamento
ribassista, degli investitori globali. Siamo al 16%, il minimo storico.
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