mercoledì 31 luglio 2019

Lo scorrere del tempo avanti ed indietro...




di Simone Caporali, 21 lug 2019



Il tempo va in una sola direzione: avanti. Lo sappiamo, lo abbiamo sempre sperimentato. Ci ricordiamo cosa abbiamo mangiato (solitamente) a pranzo ieri, ma non possiamo ricordare il pranzo del giorno successivo. Oppure sì

Fisici americani e russi hanno collaborato per provare a rompere, mettere alla prova, scalfire una delle leggi fisiche riguardanti l'energia: la seconda legge della termodinamica

Che legge sarebbe? Ha molte formulazioni, ma in poche parole dice che le cose calde diventano fredde nel tempo mentre l'energia si diffonde dalle aree dove è maggiormente intensa. Ci dice che se vi preparate un thè, esso non rimarrà caldo per sempre all'interno di una stanza più fredda. 

"Questa legge è strettamente correlata alla nozione di freccia del tempo che postula la direzione del tempo a senso unico, dal passato al futuro", afferma il fisico quantistico Gordey Lesovik dell'Istituto di fisica e tecnologia di Mosca. In un certo senso, con alcune accortezze, infrangerla sarebbe come affermare di poter viaggiare nel tempo

Se immaginiamo un tavolo da biliardo e zummando guardiamo una singola collisione tra due palle, anche se vista al contrario non noteremmo nulla di strano. Tuttavia, se vedessimo le palle uscire dalle loro buche e riformare la piramide da cui le avevamo fatte partire, questo si che sarebbe stupefacente. 

Ora pensiamo agli elettroni. Questi sono come minuscole palle da biliardo, ma anche qualcosa di più. Sono informazioni che occupano uno spazio. I loro parametri sono definiti dalla famosa equazione di Schrödinger, grazie alla quale si determina l'evoluzione temporale dello stato di un sistema (in questo caso, appunto, di un elettrone). 

Per semplicità immaginiamo nuovamente il tavolo da biliardo, l'elettrone come una palla e spegniamo la luce. Se lanciamo la palla, dopo un certo tempo, potrà essere in qualsiasi posto del tavolo e avrà una certa velocità che non conosciamo. Tuttavia ci sono alcune zone dove sarà più probabile trovarla.

Se vogliamo sapere dov'è la nostra palla, dovremo afferrarla con la mano, perdendo in questo modo, però, tutta l'informazione sulla sua velocità. Se invece proviamo a sfiorarla cercando di capire a che velocità stia andando, non saremo in grado di determinarne la posizione esatta. Tuttavia se ci concentriamo sul momento in cui la lanciamo la prima volta, qualche istante dopo, siamo sicuri di due cose: si trova ancora vicino a noi e ha una velocità considerevole.

In un certo senso, l'equazione di Schrödinger predice la stessa cosa per le particelle quantistiche. Nel tempo, le possibilità delle posizioni e delle velocità di una particella si espandono.

"Tuttavia, l'equazione di Schrödinger è reversibile", dice lo scienziato dei materiali Valerii Vinokur dell'Argonne National Laboratory negli Stati Uniti. "Matematicamente, significa che sotto una certa trasformazione chiamata coniugazione complessa, l'equazione descriverà un elettrone 'spalmato' che si localizza nuovamente in una piccola regione dello spazio nello stesso periodo di tempo."

Come se la palla da biliardo, invece di perdersi chissà dove al buio sul tavolo, tornasse nella nostra mano.

In teoria, non c'è nulla che impedisca che si verifichi spontaneamente. Però servirebbe fissare 10 miliardi di tavoli da biliardo elettronici ogni secondo e la vita del nostro Universo per vederlo accadere una volta. Diciamo che è improbabile.

Piuttosto che aspettare pazientemente, il team ha usato gli stati indeterminati delle particelle in un computer quantistico (ormai sempre più vicini) come palla da biliardo, e alcune manipolazioni intelligenti del computer come loro 'macchina del tempo'.

Ciascuno di questi stati, o qubit, era organizzato in uno stato semplice che corrispondeva a una mano che teneva la palla. Una volta che il computer quantistico è stato messo in azione, questi stati si sono diffusi in una gamma di possibilità. Modificando certe condizioni nel setup del computer, quelle possibilità erano in realtà limitate, in modo da riavvolgere deliberatamente l'equazione di Schrödinger.

Per testare questo il team ha lanciato di nuovo il set-up, come se prendendo a calci un tavolo da biliardo si vedessero le palline riarrangiarsi nella forma iniziale, la piramide. In circa l'85% delle prove basate su due soli qubit, questo è esattamente quello che è successo.

A livello pratico, gli algoritmi utilizzati per manipolare l'equazione di Schrödinger in 'riavvolgimento' in questo modo potrebbero contribuire a migliorare l'accuratezza dei computer quantistici.

martedì 30 luglio 2019

La legge di Neven: quanto migliorano i computer quantistici su quelli tradizionali...



di Simone Caporali, 20 Lug 2019


"Sembra che non stia accadendo niente, ancora niente e poi ops, improvvisamente sei in un mondo diverso, questo è quello che stiamo sperimentando."
Con queste parole Hartmut Neven, direttore del Quantum Artifical Inteligence Lab, prova a descrivere quello che sta accadendo nell’ambito della corsa ai computer quantistici, nel descrivere la legge che ormai, nel gergo, porta il suo nome: la legge di NevenUna legge che descrive quanto velocemente i computer quantistici guadagnino potenza di calcolo in confronto ai computer a cui tutti siamo abituati.
Ma prima un passo indietro.
Nel dicembre 2018, i ricercatori alla Google AI hanno operato un calcolo sul più potente processore quantistico di Google dell’epoca e sono poi stati in grado di simulare tale calcolo su un laptop. A gennaio di quest’anno hanno riprodotto lo stesso test con un processore migliorato e, per simulare il risultato, sono dovuti ricorrere ad un potente desktop. A febbraio non c’erano più computer nell’edificio in grado di simulare il miglior processore quantistico che erano riusciti ad ottenere e hanno dovuto chiedere la disponibilità dell’enorme network di server di Google per un po' di tempo.
Questa rapidità nel surclassare la potenza dei normali computer è stata quantificata da Neven, affermando che la potenza di un computer quantistico cresca in modo doppiamente esponenziale rispetto alla controparte classica. Una normale crescita esponenziale è già alquanto veloce e significa che una certa quantità cresce con la potenza di 2. 21 22 23 24 ecc... I primi termini possono essere piccoli e la crescita non così rapida ma, dopo pochi salti, questa diventa estremamente importante.
Una doppia crescita esponenziale è estremamente più veloce. Posto a=2i con i=1,2,3 ecc... si ha 2a. A cosa è dovuta questa velocità? A due fattori combinati, secondo Neven. Il primo è che i computer quantistici hanno un intrinseco vantaggio esponenziale rispetto ai computer classici. Per esempio, se un circuito quantistico ha 4 bit quantistici, serve un circuito classico con 16 bit normali per raggiungere la stessa potenza di calcolo. Questo primo vantaggio in particolare rimarrebbe vero anche se i computer quantistici non migliorassero mai.
Il secondo fattore deriva dalla velocità con cui i processori quantistici stanno migliorando. Neven afferma infatti che gli ultimi processori quantistici sviluppati da Google migliorano con un andamento esponenziale. Quindi, se i computer classici hanno bisogno di una potenza di calcolo esponenziale per eguagliare la loro controparte quantistica e questa cresce di potenza esponenzialmente nel tempo, si ottiene la doppia crescita esponenziale osservata da Neven.
I computer quantistici sono un sogno per molti amanti della tecnologia; hanno simulato le proprietà di un materiale e sono riusciti, in un esperimento, a prevedere 16 futuri diversi. Chissà che non siano presenti anche in uno dei nostri, di futuri.

sabato 27 luglio 2019

Le future connessioni del cervello umano con l'IA...


“Collegheremo il cervello umano all’intelligenza artificiale”: Elon Musk svela Neuralink



La tecnologia attualmente è stata testata solo sui topi e non ci sono certezze che possa funzionare con gli umani, ma Musk è stato chiaro: l'obiettivo è raggiungere una simbiosi con l'intelligenza artificiale. 


di Giuseppe Tripodi, 17 lug 2019

Dopo quasi due anni di silenzio, Elon Musk ha finalmente acceso i riflettori su Neuralink, la società fondata dal famosissimo imprenditore statunitense che punta a sviluppare interfacce neurali per collegare il cervello alle macchine. Durante la conferenza tenutasi nella giornata di ieri, 16 luglio, Musk ha svelato i traguardi raggiunti con le sperimentazioni sui topi, ha annunciato quali saranno i futuri passi della società e comunicato di essere alla ricerca di personale qualificato.

La prima cosa che c’è da sapere su Neuralink, è che finora tutti gli esperimenti sono stati condotti con animali, principalmente topi, e che non c’è nessuna garanzia che lo stesso sistema possa funzionare anche con gli esseri umani. Tuttavia, alla fine della conferenza stampa, Musk si è lasciato scappare un traguardo importante, che i suoi collaboratori non sapevano avrebbe condiviso con la stampa: una scimmia è riuscita a controllare un computer col cervello.

Secondo quanto dichiarato, le sperimentazioni con gli umani potrebbero iniziare a metà del 2020: i primi test saranno condotti con persone paralizzate, con l’obiettivo di permettere loro di controllare smartphone e computer. A tal proposito, vale la pena dare un’occhiata all’interfaccia dell’app per iPhone. Come si può leggere dagli screenshot qui sotto, per addestrarsi a muovere il cursore si dovrà provare a muovere la mano nella direzione desiderata.



Ma come avverrà tutto questo? Per collegare il cervello alle macchine, Neuralink utilizzerà dei sottilissimi fili flessibili, più sottili di un capello (immmagine in basso a sinistra). Secondo quanto riferito, il sistema può includere fino a 3.072 elettrodi per matrice, distrubiti su 96 fili.

Questi fili verranno posizionti vicino ai neuroni, in modo da ricevere e trasmettere le informazioni raccolte dai picchi di segnale neuronale: questi dati verranno trasmessi a dei sensori, posizionati sulla superficie del cranio, sotto la pelle, che invieranno poi le informazioni ad un Pod removibile posizionato appena dietro l’orecchio. Attualmente, quest’ultimo passaggio viene effettuato con connessioni cablate, ma Musk sostiene che in futuro tali dati verranno trasmessi via wireless. Il Pod invierà poi gli input allo smartphone o al computer.

A sinistra: i fili connettori e il sensore che verrà posizionato sul cranio.
Al centro e a destra: una rappresentazione di come saranno i collegamenti.
Per posizionare i sensori in questione, Neuralink ha sviluppato un apposito macchinario che pratica un foro di 8 mm sul cranio; tuttavia in futuro Musk spera che l’operazione possa essere eseguita con un laser, per evitare le spiacevoli vibrazioni della perforazione.

Attualmente, il robot in questione, che operererà con la supervisione di un neurochirurgo, riesce ad inserire sei fili (192 elettrodi) al minuto evitando i vasi sanguigni. È doveroso specificare che, attualmente, Neuralink non ha ancora i permessi della FDA per operare su pazienti umani.

Il robot di Neuralink che posiziona gli elettrodi nel cervello
Se gli esperimenti con pazienti paralizzati andassero bene, l’obiettivo finale di Musk è collegare il cervello con una macchina, al fine di migliorare le potenzialità dell’uomo. Ovviamente ci saranno moltissimi problemi da affrontare, pratici ed etici.

Ma Musk non si è trattenuto: a suo dire, l’obiettivo è raggiungere la simbiosi con l’intelligenza artificiale
Per saperne di più, potete guardare la conferenza completa di Neuralink qui sotto.

giovedì 25 luglio 2019

Fotosintesi "rinforzata": una soluzione al problema della CO2?

Lotta al climate change


di Elena Comelli, 10 giu 2019




Gli alberi sono molto efficienti ad assorbire la CO2, catturata dalla fotosintesi e immagazzinata in tronchi, rami e radici, oltre che nel terreno. Ma ce ne vogliono molti. 

Per sequestrare tra 100 e 1.000 miliardi di tonnellate di CO2, come indica l’Ipcc, con un bosco di fascia temperata, bisognerebbe riforestare una superficie equivalente fino a cinquanta vole l’Italia. Una foresta di tipo tropicale, che può immagazzinare più carbonio, richiederebbe un territorio grande da 3 a 30 volte lo stivale. 
Considerando i quasi 4 miliardi di ettari attualmente dedicati a foresta globalmente, bisognerebbe ampliarli di una quota compresa tra il 3,5% e il 35%. Un obiettivo molto difficile da raggiungere, per non dire impossibile, visto che al momento si sta andando nella direzione opposta: tra il 1990 e il 2015, le foreste hanno perso 130 milioni di ettari secondo la Fao.

La soluzione alternativa è quella delle bioenergie: si tratta di coprire vasti territori con alberi come il salice e il pioppo o di piante erbacee a crescita rapida, come il miscanto o il panico. 
Queste biomasse vengono bruciate per produrre elettricità o calore e l'anidride carbonica da combustione viene recuperata e stoccata in formazioni geologiche profonde a terra o in mare. 
Anche qui, gli ordini di grandezza fanno venire le vertigini. Secondo l’Ipcc, per contenere il riscaldamento globale a 1,5°C, bisognerebbe piantumare più di 700 milioni di ettari con queste colture tra il 2050 e il 2100. In entrambi i casi, tutti questi territori verrebbero sottratti ad altri usi, compresa la produzione di cibo, con impatti potenzialmente negativi sugli ecosistemi, sulla biodiversità e sulle risorse idriche. 
Malgrado ciò, gli esperti dell’Ipcc preferiscono l’idea di uno stoccaggio “naturale” della CO2 rispetto agli altri progetti di cattura artificiale.

Nasce da qui l’idea di creare una “super-pianta”, in grado di fissare nel terreno molta più anidride carbonica di quanta ne avrebbe fissata naturalmente. 
Un’equipe di scienziati californiani del Salk Institute for Biological Studies, guidati dalla biologa Joanne Chory, è impegnata in questo progetto, chiamato Ideal Plant Initiative. Le piante, spiegano i ricercatori, sono la scelta migliore perché attraverso la fotosintesi clorofilliana sono già in grado di assorbire l’anidride carbonica. Basterebbe trovare il modo di mettere il turbo a questo processo, rendendo i nuovi esemplari resistenti alla decomposizione (come succede ad esempio nel sughero), che è il momento in cui le piante rilasciano nell’atmosfera la CO2 assorbita. In questo modo si potrebbero trasformare tutti i campi di grano o di soia del mondo in immensi depositi di CO2.

Gli studi sulla Ideal Plant sono già molto avanzati e ora si tratta di trasferire queste caratteristiche, sperimentate sull’Arabidopsis, tipico organismo modello per lo studio della biologia vegetale, alle coltivazioni più diffuse, come il grano, il mais, la soia o il cotone. Inserendo la suberina, componente essenziale del sughero, nel genoma di queste piante, in modo che sviluppino radici più lunghe e resistenti alla decomposizione, i ricercatori del Salk sperano di poter aumentare in maniera significativa la quota di CO2 assorbita che rimane nel terreno. Il bello dell’esperimento, che sta per cominciare la fase in campo aperto, è che i campi di grano o di mais già coprono buona parte dei terreni disponibili sulla Terra, quindi non ci sarebbe nemmeno bisogno di far concorrenza alle colture alimentari o di cambiare la destinazione del suolo per trasformarlo in un deposito di CO2.

mercoledì 24 luglio 2019

Il mistero del leonardesco "Salvador Mundi"...



di John Burger, 18 lug 2019 

Venduto due anni fa per 450 milioni di dollari, da allora non se ne è più saputo niente




L’ultima volta che il dipinto di Leonardo da Vinci noto come Salvator Mundi è stato visto in pubblico è stata nel novembre 2017, quando è stato venduto all’asta per 450 milioni di dollari. L’acquirente è stato identificato come il principe Bader bin Abdullah bin Farhan Al Saud dell’Arabia Saudita, 32 anni, e in seguito è stato rivelato che aveva agito a nome del principe ereditario Mohammed bin Salman. 
Il dipinto è stato apparentemente acquistato per conto del museo Louvre di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.

Il museo ha detto che progettava di esporre il dipinto nel settembre 2018, ma poi ha rimandato tutto senza fornire spiegazioni, e non ha rivelato dove si trovi l’opera o i progetti per il futuro. Gli esperti credono che il dipinto sia custodito a Ginevra, in un magazzino segreto esente da imposte. 
Alcuni sostengono anche che si trovi sullo yacht privato di Muhammad bin Salman. 

Nessuno sembra sapere perché il nuovo proprietario non offra spiegazioni. 
Il Salvator Mundi è circondato da un alone di mistero, come la più famosa Gioconda. 

Prosegue poi il dibattito sul fatto che l’opera sia stata davvero realizzata da Leonardo, e se è così perché sia stata restaurata e se il restauro nasconda qualcosa di significativo sul lavoro del genio. 

Del Salvator Mundi, che si ritiene sia stato dipinto per il re Luigi XII di Francia ed è stato posseduto dai re Carlo I e Carlo II, si sono perse le tracce per anni. 
Quando è ricomparso era gravemente danneggiato. Il quotidiano Guardian ha pubblicato un’immagine ad alta definizione di quando è stato restaurato dall’artista Dianne Dwyer Modestini. 

La CNN ha sottolineato che buona parte delle speculazioni sul motivo per cui il dipinto è rimasto nascosto si concentra sulla sua attribuzione. 
Per secoli, afferma la CNN, si è pensato che il Salvator Mundi fosse un’opera di uno degli assistenti di Leonardo o una copia. 
Quando i commercianti d’arte Robert Simon e Alexander Parrish, che lo hanno acquistato nel 2005 per meno di 10.000 dollari, lo hanno portato alla Modestini, era fortemente ritoccato. Nel 2011 la National Gallery lo ha incluso in un’esposizione dei dipinti di Leonardo, ma solo dopo che un nucleo di esperti l’aveva attribuito con sicurezza al genio. 
C’erano buone argomentazioni per farlo, ha sottolineato la CNN:
 - l’abile rappresentazione della mano di Cristo, sollevata in atto benedicente;
 - la tecnica pittorica sfumata usata sul volto;
 - l’uso di pigmenti e pannelli coerenti con l’opera del grande maestro. 

E poi c’è stato il “pentimento”, termine usato dagli storici dell’arte che indica un ripensamento. In questo caso ha riguardato il pollice della mano destra di Cristo. 
La Modestini aveva scoperto due pollici in uno. Apparentemente, l’artista l’aveva dipinta nuovamente in modo diverso. 
Per alcuni esperti è la conferma che si tratti di un lavoro originale di Leonardo, perché non c’è motivo per cui una persona che l’aveva copiata dovesse avere un ripensamento. 

Il dipinto è stato rivenduto nel 2013 per 80 milioni di dollari, e tre anni dopo per 400 milioni più 50 milioni di tasse – il prezzo più alto mai pagato per un’opera d’arte. 

Vari esperti teorizzano che Leonardo abbia lavorato al dipinto ma poco, e che per la maggior parte sia opera dei suoi assistenti. 
Se fosse così, il suo valore potrebbe essere di appena 1,5 milioni di dollari, secondo il critico Ben Lewis, autore del libro The Last Leonardo, uscito da poco e in cui specula che i proprietari attuali possano tenere l’opera lontana dal pubblico per evitare un ulteriore esame. 

Per Lewis, il Salvator Mundi è “il più bel punto interrogativo che sia mai stato dipinto”.

domenica 21 luglio 2019

La misteriosa storia del dipinto leonardesco "Salvator Mundi"



di Federico Varese, 29 apr 2019


Il Salvator mundi prima di essere messo all’asta da Christie’s a New York, ott 2017 (Carl Court, Getty Images)