sabato 31 ottobre 2015

Big Data Analiyst o (Scientist): una professione del futuro (3)



di Luca Indemini, 21 giu 2013


In un momento in cui il mercato del lavoro vive una contrazione senza precedenti, c’è un settore che non sente la crisi e anzi vive una fase di espansione. Big Data e Analytics, secondo le stime di Gartner , dovrebbero generare circa 4,4 milioni di posti di lavoro entro il 2015; e guardando al mercato europeo, stando ai dati di Insead-Empirica-IDC Europe , si parla di numeri oscillanti tra le 372 e le 864 mila unità, assorbite per lo più da PMI. 

Considerando i numeri, il Data Scientist potrà anche non essere “il lavoro più sexy del XXI secolo”, come sostiene la Harvard Business Review, ma sicuramente sarà uno dei più richiesti, almeno in questo primo scorcio del XXI secolo. Diventa dunque centrale il ruolo della formazione, perché maneggiare grandi moli di dati richiede conoscenze specifiche e inter-disciplinari. 

In questa direzione, a Torino è nato poco meno di un anno fa il programma di formazione Big Dive , lanciato da Topix , con Axant , ToDo e ISI Foundation , con l’intento di fornire competenze in ambito di sviluppo, visualizzazione e scienza dei dati. Nei primi giorni di giugno, hanno attivato progetti di formazione in ambito Big Data tanto il Politecnico di Milano quanto l’Università di Pisa

Il Polimi, assieme a IBM , ha avviato il Collaborative Innovation Center , primo nel suo genere in Europa, dedicato ai Big Data e alla Business Analytics. Per il prossimo quinquennio gli sforzi saranno focalizzati su cinque specifici programmi che vanno dalla laurea Magistrale al PhD, dai corsi post-graduate della School of Management agli ambiti delle start-up e degli spin-off, fino al coinvolgimento delle imprese. L’obiettivo è duplice: da una parte creare competenze professionali ad hoc, dall’altra favorire la formazione di una cultura dei Big Data, che riconosca il valore strategico della gestione dei dati a sostegno dell’imprenditorialità. 

Big Data e Cloud Computing è invece il binomio su cui punta l’Università di Pisa, che in collaborazione con Microsoft Italia ha dato vita al progetto “Cloud OS Immersion ”: al contempo un centro di competenza e un laboratorio dedicato a tutti coloro che si confrontano quotidianamente con i repentini cambiamenti in ambito tecnologico. Il neonato centro si propone di agevolare il dialogo e la condivisione di esperienze tra gli esperti Microsoft, i ricercatori universitari, gli studenti, le aziende e gli operatori di canale, per condividere le esperienze in ambito Cloud Computing e Big Data. A livello didattico, il centro si propone di formare i professionisti di domani, fornendo competenze che possano agevolarne l’inserimento nel mondo del lavoro.

Big Data Analiyst o (Scientist): una professione del futuro (2)



di Giuditta Mosca, 24 ott 2014

Quella del data scientist è stata definita dall'economista Hal Ronald Varian «la professione più sexy del futuro», laddove l'aggettivo assume l'accezione di «interessante».

Cosa fa un data scientist
Come suggerisce il nome, analizza dati per fornire al management le informazioni utili ad assumere decisioni e disegnare strategie. Per lunghi anni si è parlato dell'importanza dei dati, ora nasce l'esigenza di saperne fare buon uso. 
Benché si possa credere che la figura del data scientist sia appropriata solo alle grandi aziende, un simile profilo si rivolge a qualsiasi realtà, dalle Pmi alle multinazionali. 
Di norma viene inquadrato tra i manager, anche dal punto di vista della retribuzione, proprio perché è con gli altri manager che deve dialogare. 
È una figura professionale nuova e, in qualche modo, ancora da definire. 
Lo scienziato dei dati non è solo un'analista, non è solo uno stratega del business, non è solo un marketer così come non è solo un information manager. 
Il frutto delle sue analisi copre trasversalmente tutti i reparti di un'azienda, trasformando i dati in informazioni comprensibili affinché per i vertici le strategie da assumere siano chiare e in qualche modo obbligate. Ciò si adatta anche alle Pa. 
Dino Pedreschi, professore ordinario di Informatica all'Università di Pisa, descrive lo scienziato dei dati come: «Una figura che deve avere più competenze. La prima è sapere gestire, acquisire, organizzare ed elaborare dati. La seconda competenza è di tipo statistico, ovvero il sapere come e quali dati estrarre, la terza capacità è una forma di storytelling, il sapere comunicare a tutti, con diverse forme di rappresentazione, cosa suggeriscono i dati».
Non basta quindi una formazione in statistica, in economia o in informatica, tutte doti utili alla figura del data scientist ma che necessitano di essere mixate sapientemente.

Perché c'è bisogno di data scientist
La risposta in due sostantivi: produttività e cambiamenti. Da una parte cambiano i modelli di business delle aziende, così come cambiano le loro politiche economiche e i mercati e, dall'altra parte, vige la necessità di aumentare produttività e profitti. 
Un esempio reale arriva da Mario Alemi, data scientist italiano (laureato in fisica): «Le email personalizzate in base ai gusti letterari dei clienti hanno generato, nei negozi, il 27% delle vendite in più di quelle conseguite con le email generiche»
Un'indagine McKinsey rileva che, negli Usa, mancano tra i 140 e i 190mila data scientist, ciò testimonia quali prospettive possa avere la professione. «Quella del data scientist sarà nei prossimi anni tra le figure più ricercate nel mondo del lavoro – continua Pedreschi – e sono sempre di più le università che preparano percorsi postuniversitari aperti a tutti i curriculum».

Quale formazione è necessaria
Ci sono decine tra atenei e centri studio che offrono formazione specifica. 
Giuseppe Ragusa, direttore del master in Big Data Analytics della Luiss, in collaborazione con Oracle, riassume così le qualifiche necessarie per abbracciare la professione: «Il data scientist è un animale a tante teste, deve avere tre set di skill: una preparazione informatica molto solida, una buona comprensione degli aspetti tecnologici e allo stesso tempo è un conoscitore degli aspetti aziendali. Una figura professionale dotata di competenze trasversali e capace di relazionarsi con il management dell'azienda»
Anche Dino Pedreschi apporta la sua esperienza di docente universitario e parlando del master in Big Data Analytics e Social Mining, dell'Università di Pisa, che partirà a febbraio 2015 spiega: «Stiamo organizzando un master apposito che si rivolge a laureati di qualsiasi provenienza, perché non ci sono requisiti stretti in ingresso, se non la voglia di mettersi alla prova con tutte le competenze necessarie, in collaborazione con il mondo industriale».

La situazione in Italia
I poli mondiali sono Usa e Uk, laddove nei primi anni del Duemila si erano già create metodologie e procedure. Alle nostre latitudini le aziende cominciano a concepire la necessità di una simile figura e cercano di formarla al proprio interno. 
Nel frattempo, dice Ragusa, le imprese chiedono alle università i dati di chi frequenta i corsi. Perché l'Italia stenta a carburare lo spiega Alemi: «La nostra cultura è prettamente umanistica, siamo sempre un passo indietro quando si parla di discipline scientifiche, ma sono ottimista, questo gap verrà colmato nei prossimi 5-10 anni»
Il data scientist lavora con i big data ed è in questa direzione che bisogna muoversi; le anagrafiche sono il primo patrimonio di un'azienda, concetto ancora non del tutto consolidato in Italia e questo, da solo, spiega già gran parte dell'handicap che abbiamo in materia di scienza dei dati.

Cosa aspettarsi dal futuro
Una rilevazione voluta da Emc Data Science segnala che l'assenza di risorse uomo sufficientemente preparate e aziende non strutturate per il data science si equivalgono, entrambe con il 32%, nell'elenco dei principali freni allo sviluppo sia della professione, sia della crescita dell'intero settore che, ancora lontano da misurazioni di tipo economico, è comunque una costola del comparto dei big data il quale, secondo Gartner, varrà 26miliardi di dollari entro la fine del 2015.

Big Data Analiyst o (Scientist): una professione del futuro (1)

Da wired.it


Chi è il data scientist?


Ecco cosa fa e perché sarà sempre più importante nelle nostre vite
di Pietro Leo, CTO for Big Data Analytics & Watson, Member of IBM Academy of Technology IBM Italia e
di 
Stefano Gliozzi, Senior Managing Consultant, Data Scientist IBM Italia     19 ago 2014

I
 dati crescono, questo si sa, ma sapere che a oggi il 90% di essi, come hanno riscontrato alcune ricerche, è stato creato nei soli ultimi due anni probabilmente è meno noto.
Lo tsunami dei dati ci travolge. I dati arrivano ormai da ogni dove sommergendoci anche individualmente. Non ci credete? Provate a chiedervi: quanto è grande il mio archivio fotografico digitale? Quante foto che non mi sono mai deciso a stampare giacciono nei miei hard disk? Quanto è grande lo stesso hard disk che uso ora rispetto a quello di soli tre anni fa?
Se consideriamo i dati prodotti dalla nostra società, nel suo complesso, comprendiamo quando grande sia effettivamente questo fenomeno e quanto sempre più digitali e quanto Big siamo i dati che ci circondano: sensori che acquisiscono dati metereologici, l’esplosione dei contenuti che condividiamo suisocial media, enorme quantità di registrazioni di dati relativi agli acquisti o dati bancari che ogni giorno si accumulano, archivi diimmagini e videodati telefonici, i segnali Gps che ci scambiamo, questi sono solo pochissimi esempi, ma danno certamente l’idea della dimensione del fenomeno.
Inoltre, questi esempi sono relativi ad archivi di dati grezzi, non trattati, tipicamente conservati così come prodotti dalle rispettive sorgenti. L’esigenza di trattare i dati, non solo per acquisirli, conservarli e assolvere modesti compiti operativi, ma principalmente per analizzarli e interpretarli opportunatamente, diventa sempre più una necessità condivisa, che prevede l’intervento di un professionista specifico, che in molti chiamanoData Scientist, e che racchiude tra le sue competenze molte esperienze e specializzazioni.
In realtà saper analizzare ed interpretare dati è un vecchio mestiere. L’analisi dei dati sperimentali, economici, di business, provenienti da indagini sociali o censuari è una disciplina che ha una storia di più di due secoli e che ha un nome: statistica. Negli ultimi 40 anni, e con un’accelerazione nell’ultimo decennio, è però avvenuta una mutazione del contesto, che costringe a ridefinire ruoli e professioni.
Fino ai primi anni ‘90, gli analisti di dati dovevano anzitutto porsi il problema di quali dati raccogliere e quindi registrare; quali interviste commissionare, come codificarle e renderle disponibili per un software che le analizzasse. Ognuna di queste operazioni aveva un costo. Lo scopo era quello di trarre conoscenza/previsioni utilizzando il minor numero di dati possibili.
Dagli anni ’90 in poi, con la prima ondata di Internet e del commercio elettronico in particolare, la situazione si è profondamente modificata: molte delle informazioni, per esempio riguardanti la relazione col cliente, sono nativamente disponibiliin formati digitali. Talvolta è dato strutturato, talvolta ancora da strutturare (immagini, suoni, voce, testo libero). Di fronte a questa abbondanza di dati, la statistica tradizionale ha faticato a ribaltare il suo paradigma di analisi.
La Computer Science, molto più vicina al reale svolgimento dei fatti, ha pragmaticamente cercato di reagire, proponendo metodi e algoritmi adatti a indagare dati in quantità assolutamente inusuale per gli statistici, da qui la nascita di nuove discipline come il Data MiningStatistical Machine Learning e altre.
Negli ultimi anni un’ulteriore accelerazione del processo didigitalizzazione che ha investito tutti i settori di industria ha ampliato ulteriormente queste necessità.
Il data scientist, con le sue capacità di analizzare e interpretare dati, diviene così sempre più una figura professionale centrale e quindi richiesta nel mondo aziendale. Su una cosa tutti gli analisti concordano: uno dei problemi dei prossimi decenni sarà il gap tra la scarsa offerta e l’abbondante domanda di data scientist.
Sempre di più le aziende sono consapevoli di potere acquisire vantaggi competitivi dai dati che per il momento sono solo memorizzati (per esigenze di processo), ma non realmente analizzati. Per esempio, tutti i dati prodotti dalla sensoristica delle nostre automobili, sono in massima parte analizzati solo dopo il guasto dalla apparecchiatura di diagnostica del meccanico. Una loro analisi base di routine, per tutte le auto dello stesso modello, potrebbe portare enormi benefici nell’aumentare la sicurezza e la affidabilità dei mezzi. Diverse case produttrici cominciano a muoversi in questa direzione con l’obiettivo ideale di individuare la difettosità prima ancora che l’auto esca dalla stessa fabbrica.
Il data scientist è un professionista—quindi non uno scienziato o un ricercatore—ed è il portatore di una serie di competenze che permettono alle aziende non solo di sfruttare i dati disponibili per generare vantaggio competitivo, ma anche di creare nuovi modelli di business. Ecco alcuni esempi:
  • Capacità di comprendere l’origine, e le possibili distorsioni insite in essa, dei dati che analizza;
  • Capacità di analizzare il flusso informatico di provenienza dei dati: conoscere le tecnologie, i loro limiti prestazionali e i vantaggi dell’una sull’altra;
  • Capacità di identificare problemi di business che possono essere meglio indirizzati grazie all’analisi dei dati;
  • Capacità di analizzare i dati con metodi scientificamente provati: Statistica, Data Mining, Ricerca Operativa;
  • Capacità di comunicare con chiarezza al top management i risultati e le raccomandazioni di business conseguenti,
  • Capacità di ideare applicazioni automatizzate, che analizzano e suggeriscono le decisioni in ambienti complessi.
Certamente ogni data scientist avrà maggiori abilità in alcuni di questi campi e minori in altri, ma deve evidentemente avere la consapevolezza che tutti questi aspetti sono parte della sua professione, combinati con un’attitudine di fondo fatta curiosità e creatività nel problem solving basato sull’analisi dei fatti.
Fino a un recente passato, i data scientist si sono formati sostanzialmente in modo autonomo, empiricamente, risolvendo problemi sempre più complessi. Sono il frutto della combinazione, talvolta casuale, tra le attitudini, gli studi individuali e le opportunità aziendali, senza un percoso di formazione e di crescita ben preciso.
Negli ultimi anni però, sono si sono sviluppate iniziative anche in sinergia tra il mondo accademico e le aziende, per costruire dei curricula che avviino alla professione del data scientist, offrendo le competenze di base in modo più strutturato.
In Italia già dallo scorso anno, IBM e il Politecnico di Milano hanno avviato un progetto congiunto che va in questa direzione, chiamato PoliMI-IBM Collaborative Innovation Center for Business Data Analytics. Si tratta di un’esperienza unica in Europa, in sinergia con due iniziative simili avviate sempre da IBM con altre Università negli Stati Uniti e in estremo oriente.
Il Collaborative Innovation Center focalizza gli sforzi su cinque specifici programmi che vanno dalla laurea Magistrale al PhD, dai corsi post-graduate della School of Management agli ambiti delle start-up e degli spin-off, fino al coinvolgimento delle imprese. Obiettivo della collaborazione è la formazione di nuove competenze professionali ad hoc e nello stesso tempo la creazione di una cultura che riconosca il valore strategico della gestione dei dati (e il processo decisionale ad esso legato), il sostegno dell’imprenditorialità e delle stesse organizzazioni già posizionate sul mercato.

martedì 27 ottobre 2015

Cose nascoste nei siti internet: easter eggs...

Da ilPost.it

Le cose nascoste nei siti

21 "easter egg" che si trovano in giro su Internet, dai bombardamenti su YouTube al beatboxing su Google Translate, e poi pterodattili, Batman e gli omini LEGO


23 gen 2014


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Programmare è un lavoro molto più creativo di quanto si possa immaginare, ma dopo intere giornate passate a scrivere infinite righe di codice può accadere che a qualche sviluppatore venga voglia di svagarsi, inserendo magari qualche funzionalità nascosta destinata a essere scoperta da utenti più curiosi o smanettoni di altri. 

In informatica le cose che ci sono nei programmi, ma che in teoria non dovrebbero esserci, si chiamano “easter egg”, cioè “uova di pasqua”, come quelle colorate che negli Stati Uniti vengono nascoste per fare giocare i bambini nel periodo pasquale. 

Prendendo spunto da BBC, che ha di recente pubblicato un breve elenco di “easter egg”, abbiamo messo insieme 21 cose nascoste su Internet, spesso su siti che usiamo ogni giorno e di cui molti ignorano l’esistenza.





lunedì 26 ottobre 2015

Meritocrazia in Italia...

La meritocrazia in Italia esiste solo a parole

Il “meritometro” Forum della Meritocrazia fotografa un divario abissale rispetto al resto d’Europa

, 26 feb 2015

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Fonte: Forum della Meritocrazia. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Non sono lontani solo i Paesi scandinavi, ma anche Spagna, Polonia e Francia
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Fonte: Forum della Meritocrazia. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Quel che preoccupa è che la situazione sta peggiorando, a dispetto di tutti gli annunci
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Fonte: Forum della Meritocrazia. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
Neglia: «I giovani devono credere in una battaglia che riguarda soprattutto loro»
Tra le proposte avanzate dal Forum c’è un decalogo per la “meritocrazia nel cda delle imprese”
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Fonte: Forum della Meritocrazia. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui

Discriminazione o no?



Anche se si tratta di fare la commessa da Abercrombie & Fitch? 
E l'azienda può chiederle di toglierlo? 
Se ne sta occupando la Corte Suprema americana

26 feb 2015










Mercoledì la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America – il tribunale federale di grado più alto del sistema giudiziario americano – ha iniziato ad affrontare il caso di Samantha Elauf, una ragazza che nel 2008 non ottenne un posto da commessa in un negozio di Abercrombie Kids a Tulsa, in Oklahoma, perché si era presentata al colloquio di lavoro indossando un hijab nero (il foulard che copre i capelli e il collo della donna lasciando scoperto il viso, tipico della religione islamica).
Durante il colloquio – a quel tempo Elauf aveva 17 anni – l’assistant store manager di Abercrombie & Fitch espresse un giudizio positivo sulla ragazza, ma la sua candidatura venne scartata sia dall’intervistatore che da un supervisore perché Elauf indossava il velo nero per motivi religiosi, cosa che andava contro la Look Policy dell’azienda. 
Gli stessi impiegati e manager di Abercrombie hanno detto di aver scartato la ragazza per questo motivo, benché fosse qualificata (i giornali americani fanno notare anche che se si fossero limitati a dire che la ragazza non era preparata, il processo non sarebbe nemmeno iniziato); e dicono di averlo fatto perché il regolamento aziendale che prevede che i commessi della catena indossino abiti a loro scelta in stile preppy, o East Coast collegiate – quello della sottocultura statunitense delle scuole private di preparazione all’università, chiamate preparatory schools – e non cappelli e/o abiti completamente neri.
La Equal Employment Opportunity Commission (EEOC), la Commissione per le pari opportunità sul lavoro, si è fatta carico di rappresentare Elauf nella causa giudiziaria contro la sua esclusione: in primo grado la giuria del tribunale distrettuale aveva giudicato fondate le richieste della ragazza, riconoscendole un risarcimento di 20.000 dollari. La Corte d’appello federale di Denver, invece, aveva revocato il risarcimento, sostenendo che Abercrombie & Fitch non poteva essere ritenuta responsabile di discriminazione religiosa perché Elauf non aveva mai chiesto esplicitamente deroghe alla politica aziendale che proibiva il velo.
Ora che è arrivato alla Corte Suprema, il caso di Samantha Elauf ha riaperto il dibattito negli Stati Uniti sulla discriminazione per motivi religiosi sul posto di lavoro. Il punto è se un’azienda abbia il diritto di sapere se un lavoratore o un candidato ha credenze religiose che prevedono richieste e necessità che si ripercuotono sull’azienda, e anche in che modo possa saperlo. Le aziende private, le organizzazioni statali e le amministrazioni locali appoggiano Abercrombie perché temono che, se la posizione della EEOC dovesse prevalere, si ritroverebbero a dover affrontare un alto numero di denunce per discriminazione. La maggior parte delle associazioni religiose musulmane, cristiane ed ebraiche invece si è schierata dalla parte di Elauf, così come quelle per la difesa dei diritti gay.
Nell’udienza di mercoledì scorso quasi tutti i nove componenti della Corte Suprema sono sembrati decisamente a favore della posizione di Elauf; l’unico ad aver difeso l’azienda è stato il giudice conservatore Antonin Scalia, che ha commentato: «Si potrebbe evitare questo genere di questioni difficili adottando la regola che in questo caso è stata applicata dalla Corte d’Appello: se vuoi farmi causa perché ti ho negato un lavoro per ragioni religiose, sei tu per primo a dover avvisare che “Sto indossando un velo per motivi religiosi, oppure porto la barba per motivi religiosi”». L’avvocato di Abercrombie Shay Dvoretzky ha adottato una linea di difesa simile, sostenendo che se le aziende cominciassero a trarre conclusioni religiose basandosi sull’aspetto delle persone, rischierebbero di creare stereotipi e discriminazioni.
Alle affermazioni di Dvoretzky sia i giudici conservatori che quelli più di sinistra hanno replicato chiedendo perché l’azienda non avesse reso esplicite le proprie regole interne – in questo caso quelle sul divieto di coprire la testa – e chiesto direttamente alla candidata se avrebbe accettato di rispettarle e togliersi il velo sul posto di lavoro. La domanda, ha detto la giudice Sonia Sotomayor, sarebbe stata molto semplice: “È un problema per te?”. Anche la giudice Ruth Bader Ginsburg ha contestato le opinioni del collega Scalia e di Dvoretsky, sostenendo che Elauf non sapeva e non avrebbe potuto immaginare che Abercrombie & Fitch avesse un regolamento che proibiva il velo.
Negli Stati Uniti la legge federale sui diritti civili impone ai datori di lavoro di assecondare, in molti casi, le convinzioni religiose dei dipendenti. Dvoretzky ha obiettato che la EEOC, con questa causa, vuole fare in modo che le aziende trattino le persone in modo diverso sulla base della loro religione, una conclusione opposta – secondo l’avvocato – rispetto allo spirito della legge. Ginsburg ha risposto che la legge per come è costruita «richiede che le aziende trattino le persone di ciascuna fede religiosa in modo diverso: possono non accettare che si lavori con un cappellino da baseball, ma sono obbligate ad accettare una kippah ebraica».
La giudice Elena Kagan ha sostenuto che la legge vuole incoraggiare il dialogo sulle necessità religiose: è meglio fare domande imbarazzanti piuttosto che escludere un candidato per evitare certi argomenti.
Il giudice Samuel A. Alito Jr. ha spiegato la sua posizione sul caso con questo esempio: «Il primo candidato è un sikh che indossa un turbante, il secondo un ebreo chassidico con un cappello, la terza è una donna musulmana col velo e la quarta una suora cattolica con la tonaca. Pensate che queste persone debbano dichiarare esplicitamente: volevamo solo dirvi che siamo vestiti così per motivi religiosi, non si tratta di una questione di moda?».
Nel frattempo Abercrombie & Fitch ha cambiato la propria Look Policy (resta solo il divieto di abiti neri) e si è accordata per un risarcimento in casi simili a quello di Elauf. In questa causa però l’azienda sembra voler resistere sulle proprie posizioni. La decisione finale sul caso EEOC v. Abercrombie & Fitch è attesa per la fine di giugno.
Foto di AP Photo/Pablo Martinez Monsivais

L'Esperanto oggi...

Da ilPost.it

Che fine ha fatto l’esperanto

La lingua inventata un secolo fa da un polacco con ambizioni pacifiste e internazionaliste ha avuto alterne fortune: non è diventata la lingua di tutti, ma resiste



L’esperanto è una lingua artificiale, creata a tavolino partendo dalle parole e dalle regole grammaticali di altre lingue. La elaborò tra il 1882 e il 1887 Ludwik Lejzer Zamenhof, un medico e linguista polacco, e ha avuto nel tempo una popolarità intermittente. Zamenhof aveva studiato molte lingue e decise di proporne una sintesi: una versione semplificata che potesse ambire a diventare quello che si definisce una lingua ausiliaria internazionale, una lingua che persone di diversi paesi possono usare per comunicare tra loro. Zamenhof voleva che l’esperanto diventasse una lingua capace di favorire le relazioni interpersonali e la pace nel mondo. “Esperanto” significa infatti “colui che spera” e deriva a sua volta dallo pseudonimo Doktoro Esperanto, che Zamenhof scelse di usare per alcune sue pubblicazioni.

Saluton!  Ĉu vi parolas Esperanton? (Ciao, parli esperanto?)

Nelle ambizioni di Zamenhof e di chi dopo di lui ha parlato, insegnato e promosso l’esperanto, la lingua avrebbe dovuto diventare quello che oggi è l’inglese. Non è successo. Nonostante questo l’esperanto resta la lingua artificiale più diffusa al mondo: si stima che la conoscano tra 200mila e 2 milioni di persone e la sezione di Wikipedia in esperanto comprende 186mila voci, più di quelle della lingua ebraica o della lingua hindi. Seppur con risultati peggiori rispetto a quelli sperati più di cento anni fa, l’esperanto è ancora una lingua viva: scritta, parlata e discussa.


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Ludwik Lejzer Zamenhof


Le regole dell’esperanto
Nel 1887 Za
menhof pubblicò Unua Libro (“primo libro”, in lingua esperanto) in cui spiegò i principi della lingua che sarebbe poi diventata l’esperanto, alcuni suoi vocaboli e alcuni esempi di testi in esperanto, per esempio alcuni versi della Bibbia. Le regole dell’esperanto furono perfezionate nel 1905 quando – poco prima del primo congresso mondiale di esperanto – Zamenhof pubblicò Fundamento de Esperantoun libro diviso in quattro parti: una prefazione (Antaŭparolo), una grammatica (Gramatiko), una collezione di esercizi (Ekzercaro) e un dizionario universale (Universala Vortaro).
L’Economist spiega che la principale qualità dell’esperanto è la sua semplicità: «Zamenhof l’ha concepita affinché si diffondesse. Le sue radici sono nelle principali lingue europee. La sua grammatica è sempre regolare [non ci sono eccezioni]: i nomi finiscono in -o, gli aggettivi in -a, gli avverbi in -e, i plurali con una -j». La maggior parte delle parole alla base della lingua esperanto derivano dal latino, altre da italiano, francese, tedesco, inglese, russo e polacco. Ci sono poi parole derivate dall’arabo, dal giapponese e da molte altre lingue. Alcune delle parole dell’esperanto sono invece idiomismi nativi, idiomi inventati dal nulla, da Zamenhof o, più avanti, dai membri della comunità esperantista: “marito”, per esempio, si dice “edzo”. L’esperanto si basa su 16 regole principali. La numero nove dice che “ogni parola si legge così come è scritta”: l’esperanto è infatti una lingua in cui ogni lettera corrisponde a un solo suono.
L’evoluzione dell’esperantoL’esperanto non è riuscito a imporsi come avrebbe voluto il suo ideatore. La diffusione della lingua è stata resa difficoltosa anche dalle due guerre mondiali: una lingua internazionale e con ambizioni pacifiste andava infatti contro i nazionalismi che si affermarono nella prima metà del Novecento. Gli esperantisti furono perseguitati sia da Stalin che da Hitler, che parlò dell’esperanto nel suo Mein Kampf. Hitler riteneva che Zamenhof – che era ebreo – volesse fornire una lingua comune alla diaspora ebraica, e definì l’esperanto “la lingua delle spie“. Terminata la guerra mondiale, l’affermazione degli Stati Uniti e la crescita della lingua inglese frenarono molto i tentativi di sviluppo dell’esperanto.
Nel 1954 l’UNESCO – l’organizzazione delle nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura – riconobbe ufficialmente i “risultati ottenuti per mezzo dell’esperantonel campo degli scambi internazionali e dell’avvicinamento dei popoli”. L’UNESCO decise di collaborare con la UEA – l’Associazione Universale Esperanto – per promuovere la diffusione della lingua. Nel 1985 – due anni prima del centenario dell’esperanto – l’UNESCO invitò ufficialmente i suoi stati membri e altre associazioni non governative a celebrare e promuovere l’esperanto. In anni più recenti ci sono state anche alcune proposte per utilizzare l”esperanto come lingua franca dell’Unione Europea, per esempio durante i lavori del suo parlamento: le proposte sono sempre state rifiutate.
Negli anni Sessanta l’esperanto fu anche scelto come lingua ufficiale della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, che l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa fondò nel mare di fronte all’Emila Romagna: l’isola – come prevedibile – non fu riconosciuta dallo stato italiano e l’avventurosa iniziativa di Rosa terminò dopo poco tempo. Alle vicende dell’isola che scelse l’esperanto come sua lingua ufficiale si è ispirato Walter Veltroni per scrivere, nel 2012, L’isola e le roseedito da Rizzoli.
L’esperanto oggiÈ difficile quantificare il numero di esperantisti ed è difficile avere informazioni precise sul livello di conoscenza della lingua da parte delle persone che dicono di conoscerla.Soprattutto grazie a internet l’esperanto è però riuscito a sopravvivere. Oltre alle numerose pagine Wikipedia (la prima esiste dal 2001) c’è anche un sito – Pasporta Servo – che offre agli esperantisti un servizio gratuito di couchsurfing: gli utenti possono viaggiare in tutto il mondo richiedendo ad altre persone che parlano l’esperanto di ospitarli per alcuni giorni. Il sito è gestito da TEJO, l’associazione mondiale che riunisce i giovani esperantisti. Tra le lingue che Google Translate permette di tradurre c’è l’esperanto; Duolingo – una delle più famose app per imparare le lingue – offre corsi sull’esperanto.

esperanto-wikipedia
La definizione di “esperanto” su Wikipedia, in esperanto.

Oltre alle persone che scoprono e decidono di imparare l’esperanto grazie a internet, ci sono nel mondo circa mille persone che possono definirsi esperantisti madrelingua: sono quelle persone che hanno imparato la lingua da piccoli, sentendola parlare dai loro genitori, e non studiandola una volta cresciuto. Uno di loro è Linken Kay, un ragazzo di 10 anni che vive a Tucson, in Arizona: suo padre, Greg Kay, racconta di aver imparato l’esperanto molti anni fa, mentre studiava in Giappone, uno dei paesi in cui la lingua è più diffusa. È un madrelingua esperantista anche George Soros, ricchissimo imprenditore ed economista ungherese. The Verge scrive però che Soros non ha fatto molto per promuovere l’esperanto nel mondo: si è limitato a far tradurre in inglese le memorie di suo padre, scritte in esperanto.
Dal 1929 all’esperanto è dedicato anche un museo: si trova a Vienna e raccoglie 35mila volumi e molte altre migliaia di oggetti, lettere e fotografie che documentano la storia dell’esperanto. Non tutti i documenti del museo sono però in esperanto: il museo celebra e racconta anche la storia di altre lingue artificiali che, come l’esperanto, sono state “pianificate” e inventate da zero, e non attraverso un’evoluzione nel tempo. Una delle più famose è la lingua Klingon, la lingua parlata da una delle razze aliene della serie televisiva Star Trek. La lingua è stata codificata nel 1984 da Marc Okrand ed è stata imparata, scritta e parlata dai più accaniti fan di Star Trek: la lingua klingon è per esempio spesso citata – e parlata – da Sheldon Cooper, il protagonista della serie televisiva Big Bang Theory. Altre lingue artificiali nate da opere di fiction sono quelle parlate nella saga Il Signore degli anelli, scritta da J.R.R. Tolkien, che è anche stato uno dei più famosi studenti e ammiratori dell’esperanto.
Se si pensa alle ambizioni iniziali dopo trent’anni l’esperanto si è rivelato un fallimento, scrive il New YorkerÈ però anche vero che al mondo esistono seimila lingue non artificiali che sono parlate da meno persone rispetto all’esperanto. L’esperanto riuscirà a sopravvivere e lo farà grazie a internet, ad alcuni madrelingua, ai molti appassionati e, secondo l’Economist, grazie agli “ideali di armonia internazionale che promuove”.