mercoledì 28 aprile 2021

Una vernice davvero ecologica...

 Da ZeusNews

La vernice tanto bianca da sostituire l'aria condizionata

23 apr 2021

Xiulin Ruan, a Purdue University professor of mechanical engineering,
holds up his lab’s sample of the whitest paint on record.
(Purdue University/Jared Pike)

Alcuni ricercatori della Purdue University (nello Stato dell'Indiana, USA) hanno creato una vernice tanto bianca da contribuire al raffreddamento delle superfici su cui viene stesa, e tale effetto è così potente da spingerli a ritenere che la loro invenzione possa aiutare a fare a meno dell'aria condizionata.

La "vernice ultrabianca" deve le sue particolarità all'utilizzo, nella miscela che la compone, di solfato di bario, un composto chimico già usato nel campo della fotografia e della produzione dei cosmetici come agente sbiancante.

Il suo uso ha consentito di creare una vernice che non solo riflette fino al 98,1% della luce solare che la colpisce (vernici che vantano simili proprietà, già sul mercato, arrivano all'80%-90%) ma è anche in grado di di respingere la componente infrarossa, proprietà che nessuna vernice attualmente in vendita possiede.

An infrared camera shows how a sample of the whitest white paint
(the dark purple square in the middle) actually cools the board below ambient
temperature, something that not even commercial “heat rejecting” paints do.
(Purdue University/Joseph Peoples
)

Grazie alle sue caratteristiche, la vernice della Purdue University è quindi addirittura in grado di raffreddare le superfici che ricopre: i primi test mostrano come esse, durante la notte, si trovino a una temperatura 19 gradi Fahrenheit (circa 10 gradi Celsius) inferiore a quella dell'ambiente circostante, e 8 gradi Fahrenheit (circa 4,5 gradi Celsius) inferiore anche se colpite dal sole di mezzogiorno.

«Calcoliamo che, usando questa vernice per coprire un tetto con una superficie di 1000 piedi quadrati (circa 93 metri quadrati), otteniamo una potenza di raffreddamento pari a 10 kilowatt, superiore a quella dei condizionatori centralizzati di molte case» spiega Xiangyu Li, uno dei responsabili della creazione della vernice ultrabianca.

Alla base delle motivazioni che hanno spinto i ricercatori a imboccare questa strada sta proprio il desiderio di creare una vernice che, riflettendo il più possibile la luce, possa aiutare a fare meno affidamento sulle macchine per il raffreddamento degli ambienti, con conseguenti benefici per il consumo energetico e per l'ambiente.

«Abbiamo valutato diversi prodotti commerciali; praticamente, qualsiasi cosa sia bianca» ha spiegato ancora Xiangyu Li, parlando del processo che li ha portati a scegliere certi materiali per il loro prodotto. «Abbiamo così scoperto che, usando il solfato di bario, si possono rendere le cose molto, molto riflettenti, e ciò significa che sono anche molto, molto bianche».

Inoltre - spiega sempre Xiangyu Li - la decisione di adoperare particelle di solfato di bario di dimensioni diverse ha contribuito ad aumentare il potere riflettente del prodotto finito.

La vernice ultrabianca ancora non è in vendita, ma la sua produzione su scala industriale non dovrebbe essere problematica. I ricercatori affermano infatti che per quanto riguarda il solvente ne è stato usato uno acrilico standard, e che il solfato di bario è addirittura più economico del biossido di titanio, generalmente adoperato per la creazione delle vernici bianche.

Ora che il brevetto è stato depositato, quindi, l'università ha già avviato i contatti con una grande azienda (di cui non ha fatto il nome) per la produzione e la commercializzazione.

venerdì 23 aprile 2021

Un articolo sulle "criptovalute" (non solo Bitcoin)



di Giuditta Mosca, 12 apr 2021

Il Bitcoin è come il primo amore. Non si scorda mai. 
Pure tenendolo vicino al cuore, gli operatori che si muovono sui mercati delle criptovalute, tengono sempre gli occhi aperti in più direzioni perché non disdegnano le scappatelle. Dall’inizio di aprile mandano messaggi d’amore a cinque delle 4.866 criptovalute attuali.

Proprio mentre scriviamo il Bitcoin, scambiato a 57.819 dollari americani, ha superato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione, a distanza siderale dalle altre criptovalute molto sollecitate dai mercati. Ethereum (che vale 2.075,5 dollari mentre scriviamo), ha un valore di capitalizzazione di 238,18 miliardi di dollari e Binance Coin, scambiata a 388,16 dollari, ha un valore complessivo di 58,7 miliardi.

Dal punto di vista degli scambi e dei potenziali guadagni, non ci sono però soltanto le criptovalute più note. Il mercato è vasto e ha un totale di capitalizzazione di 1.939 miliardi di dollari (1.630 miliardi di euro) e, benché in modo irregolare, succede che una criptovaluta riesca a “sovraperformare” (ad avere rendimenti più elevati rispetto alle altre). Oltre alle già citate Bitcoin, Ethereum e Binance Coin che, insieme, formano il 60% del mercato delle criptovalute, ci sono due scommesse su cui puntare.

 Bitcoin
it.tradingview.com


Dal 13 marzo scorso non riesce più a superare la soglia dei 60mila dollari e, stando al Ceo dell’exchange CoinCorner, Danny Scottnon è impossibile che possa arrivare a 83mila dollari, puntando tutto su un aprile rialzista, spinto dagli acquisti di criptovaluta i quali, a suo dire, sapranno avere la meglio sui ribassisti che vogliono mantenere il valore del Bitcoin vicino ai 60mila dollari americani.


Ethereum

it.tradingview.com


Anche nel caso di Ethereum è in atto una gara tra rialzisti e ribassisti. Il 2 aprile 2021 la criptovaluta ha raggiunto il suo valore più alto (2.144,59 dollari) ma, subito dopo, c’è stato un ribasso di oltre 100 dollari che ne ha determinato il prezzo a 2.044,77 dollari. Tuttavia l’Exponential Moving Average (EMA) degli ultimi giorni, ossia la media mobile, indica che i rialzisti tendono ad avere la meglio e che, nei prossimi giorni, la criptovaluta potrebbe raggiungere nuovi valori record, fino a raggiungere i 2.600 dollari.

Binance Coin

it.tradingview.com

Una spinta repentina verso l’alto lo scorso 2 aprile, fino a toccare la quotazione record di 399 dollari per poi ricadere subito e rialzarsi immediatamente. Questo è l’andamento di Binance Coin, la cui altalena sembra essere lungi dal fermarsi. I rialzisti stanno spingendo la criptovaluta da settimane e, soprattutto nel corso dei primi giorni di aprile, ne stanno accelerando il prezzo. C’è da considerare che, visti gli equilibri tra chi vuole fare tendere il valore al rialzo e chi, invece, tende al ribasso, rimane un investimento potenzialmente esente da perdite.

Polkadot

it.investing.com

Polkadot, scambiata oggi a 43,23 dollari, è sostenuta da una comunità molto attiva, che l’ha eletta a criptovaluta di riferimento e attorno alla quale sta sviluppando diversi progetti. Il fondo asiatico di criptovalute Spartan Black ha scommesso, già dal 2020, sul fatto che Polkadot può entrare nell’Olimpo per valore di capitalizzazione.

Eos

it.tradingview.com

In una manciata di ore è passata da 5,60 dollari a 6,25 dollari, con un balzo verso l’alto molto vicino all’11%. Dopo un’attività febbrile interrotta bruscamente a marzo, ora gli investitori stanno ritornando sulla criptovaluta nata nel 2017 con l’obiettivo di diventare la prima blockchain commerciale. Sta conoscendo andamenti positivi dallo scorso 25 marzo, un rally che può continuare anche nelle prossime settimane.




giovedì 22 aprile 2021

Il futuro del "remote working" nelle "big tech"...

Da Business Insider

Da Google ad Amazon, le big tech contro il remote working: la rivoluzione è già finita?

Chiara Merico, 13 apr 2021

La sede di Google a Berlino - TOBIAS SCHWARZ/AFP via Getty Images

Un conto è lavorare da remoto quando lo fanno tutti, o quasi: altra storia è mantenere le nuove abitudini quando il mondo si dirige verso il cosiddetto “new normal”, che per certi versi sembra assomigliare sempre più al vecchio sistema. Il lavoro agile rischia di diventare un ricordo, e a guidare quella che appare una clamorosa marcia indietro sono proprio le grandi multinazionali del tech, finora considerate all’avanguardia nell’adozione di formule di lavoro flessibile.

Dipendenti negli uffici di Google a New York City – Spencer Platt/Getty Images


Lavorare da casa, o comunque da remoto in qualsiasi città del mondo, resterà invece un’ipotesi irrealizzabile per la maggior parte dei dipendenti di Google. In una lettera inviata ai dipendenti la settimana scorsa, il capo del personale Fiona Cicconi ha rivelato la prossima strategia di Big G: dal primo settembre partirà ufficialmente il piano di rientro in ufficioChi vorrà lavorare da remoto per più di 14 giorni all’anno dovrà presentare formale richiesta, per un periodo fino a 12 mesi, e solo le istanze presentate da chi dimostrerà di trovarsi in “circostanze eccezionali” saranno accolte. “Crediamo fermamente che vedersi di persona, stare insieme, avere un senso di comunità sia molto importante quando si devono risolvere grandi problemi e creare qualcosa di nuovo. Ma pensiamo di aver bisogno di creare più flessibilità e più modelli ibridi”, ha spiegato il ceo Sundar Pichai. In ogni caso i dipendenti di Google dovranno risiedere “a breve distanza” dagli uffici, cioè in località raggiungibili con uno spostamento da pendolari. Vale a dire che, anche se ci sarà maggiore flessibilità rispetto al pre pandemia, molti di loro dovranno rientrare in ufficio, dove troveranno “molte cose diverse da come le ricordate”, ha spiegato Cicconi, ma anche “pasti, snack e altri benefit” per rendere più agevole il rientro, come la campagna Dooglers che consente ai lavoratori di portarsi dietro il cane.

 

Un approccio in controtendenza rispetto agli annunci di altre big tech, o forse no. Prendiamo a esempio il caso delle dichiarazioni di Jack Dorsey, fondatore di Twitter, che lo scorso maggio aveva annunciato che i dipendenti del social cinguettante avrebbero potuto “lavorare da casa per sempre”. Parole che molti avevano visto come il manifesto di una nuova Silicon Valley, con uffici popolati solo da una piccola parte di dipendenti essenziali e una forza lavoro completamente “agile”, distribuita in tutto il mondo. Come osserva la Bbc, in realtà le frasi usate da Dorsey e da altri dirigenti, se analizzate con attenzione, raccontano un’altra storia. Lo stesso numero uno di Twitter ha infatti precisato che potranno lavorare da casa i dipendenti che si trovano “in un ruolo o in una situazione che glielo permetta”: una clausola non da poco.


Il cofondatore e ceo di Twitter Jack Dorsey – PRAKASH SINGH/AFP via Getty Images


E quasi tutti i modelli di lavoro “flessibile” o “ibrido” annunciati dalle grandi aziende della Silicon Valley si prestano a più di un’interpretazione. “Flessibile” può voler dire tutto e niente, dai venerdì liberi a una diversa relazione con il lavoro, ma nell’ambito di un orario canonico. O una soluzione come quella di Microsoft, il cui nuovo standard prevede il “lavoro da casa per meno del 50% del tempo per la maggior parte dei ruoli”: meno del 50% è una percentuale che abbraccia un ampio spettro di soluzioni, alcune molto diverse tra loro. Ancora più chiaro il messaggio mandato da Amazon ai dipendenti, sempre la scorsa settimana: “Il nostro piano è tornare a una cultura basata sulla presenza in ufficio, che crediamo ci consenta di inventare, collaborare e imparare insieme in maniera più efficace”. Non esattamente quello che si chiama un endorsement per il lavoro agile. Sull’altra sponda si colloca invece Spotify, che ancora a febbraio aveva dichiarato che i dipendenti potevano “lavorare sempre in ufficio, sempre da remoto o scegliere un mix tra le due modalità”, in proporzioni che “ogni lavoratore potrà decidere in accordo con il suo manager”, pur ammettendo che “alcuni aggiustamenti saranno possibili in corso d’opera”.


Lavoro da remoto – Sean Gallup/Getty Images)


La riapertura degli uffici, almeno al 50% della capacità, sarà infatti il grande test per la tenuta del lavoro da remoto. Quando le riunioni saranno svolte per metà in presenza e per metà in videocall, il sistema funzionerà? E quando alcuni lavoratori potranno interagire con capi e colleghi di persona, gli altri saranno svantaggiati? Interrogativi per i quali manca ancora una risposta, e che probabilmente sono alla base della clamorosa retromarcia delle big del tech, esempi di innovazione ai quali il resto del mondo guarda sempre con interesse.








mercoledì 21 aprile 2021

Regole semplificate per lo smartworking fino a dopo l'estate...



Il ministro Orlando studia la norma. Lega, Fi e Pd spingono per arrivare a settembre

di Claudio Tucci, 18 apr 2021


La normativa sul lavoro agile emergenziale in scadenza a fine aprile verrà prorogata. 
Dopo un approfondito dibattito politico, raccogliendo anche le proposte-appello delle parti sociali, il governo è pronto a presentare nel prossimo decreto Sostegni una norma che sposta in avanti il termine (a oggi fissato al 30 aprile) che, causa coronavirus, consente ai datori di lavoro di poter attivare lo smart working con un atto unilaterale, senza cioè dover sottoscrivere un accordo individuale, come invece previsto dalla legge ordinaria, la n. 81 del 2017 che, in assenza di proroga, tornerebbe vigente tra un paio di settimane, costringendo le aziende a nuovi adempimenti burocratici per milioni di lavoratori.

Obiettivo 30 settembre
La norma che dispone una nuova proroga delle regole semplificate sullo smart working è in corso di scrittura al ministero del Lavoro (prima del varo ci sarà un passaggio con le parti sociali); e, da quanto si apprende, la proroga dovrebbe viaggiare di pari passo con il decorso della pandemia e la ripresa su larga scala delle attività produttive, indicativamente prevista per dopo l’estate, quando secondo le stime dello stesso esecutivo si dovrebbe raggiungere una diffusione delle vaccinazioni effettuate tale da poter far ritenere ragionevolmente raggiunta l’immunità di gregge. L’ipotesi su cui spinge una larga fetta della maggioranza, da Fi alla Lega e buona parte del Pd, è una proroga delle regole semplificate sullo smart working almeno fino al 30 settembre per assicurare alle imprese un arco temporale adeguato per disciplinare il lavoro agile tra i propri dipendenti.

La platea dei lavoratori interessati
Il tema è delicato, soprattutto, come detto, per i numeri in gioco. Secondo le prime analisi dell’Osservatorio del Politecnico di Milano e di Randstad Research, nei prossimi mesi, il lavoro agile potrebbe interessare una platea tra i 3 e i 5 milioni di lavoratori, confermandosi uno strumento che piace alle persone, e che ha saputo, durante la fase acuta della pandemia, coniugare produttività, sicurezza e conciliazione vita-lavoro (attualmente, ha ricordato l’Inapp, sono in lavoro agile oltre 5 milioni di addetti, erano 6,5 milioni durante il primo lockdown - nelle grandi imprese il 54% dei dipendenti presta la propria attività, in tutto o in parte, “da remoto”). «Mi aspetto che la proposta normativa allo studio del governo preveda la proroga del lavoro agile almeno fino al 30 settembre - spiega la sottosegretaria al Lavoro, Tiziana Nisini -. Come Lega abbiamo preparato anche un emendamento per chiarire che la cassa integrazione possa essere concessa in continuità con le 12 settimane di ammortizzatore Covid-19 previste dalla manovra 2021, senza quindi buchi temporali, e dando, contemporaneamente, più tempo alle aziende di presentare la domanda».

Le richieste di proroga
A spingere per almeno il 30 settembre è anche Paolo Zangrillo, membro della commissione Lavoro della Camera, che al decreto Sostegni 1 aveva presentato un apposito emendamento, poi trasformato in ordine del giorno vincolante per il governo. La norma di proroga oggi allo studio del ministero del Lavoro conferma questo impegno.

Aperture anche dal Pd. «È necessario dare più tempo alle imprese per formalizzare gli accordi individuali e disegnare il lavoro agile post emergenza - ha detto la neo presidente della commissione Lavoro del Pd, Romina Mura - dopo che nei giorni scorsi la capogruppo dem a Montecitorio, Debora Serracchiani, si era espressa a favore di una proroga delle regole semplificate dello smart working -. Successivamente - ha proseguito Mura - occorrerà aprire un confronto tra le parti sociali per definire le nuove regole dello smart working».

Il gruppo di lavoro
L’appello è stato subito raccolto dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che ha incardinato un gruppo di lavoro (che si riunirà a metà settimana) per iniziare a sistematizzare lo strumento, e ad aggiornare la cornice normativa (nei giorni scorsi la commissione Lavoro della Camera ha approvato, su input del ministero del Lavoro, una norma che riconosce il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche per i lavoratori agili, nel rispetto degli accordi tra le parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati). Sempre su pressing del ministero del Lavoro, nel decreto Sostegni 2 è pronta anche una norma per i giovani Neet, che prevede un fondo per la “scuola dei mestieri” per consentire alle aziende che prevedono alto tasso di specializzazione di fare scuole per ragazzi nei principali settori della manifattura, tessile, cantierisica, solo per fare alcuni esempi.

martedì 20 aprile 2021

Smartworking: spese e retribuzioni per il lavoro da casa...

 Da Il Post

Bisogna pagare di più chi lavora da casa?


Certe spese non ci sono (la benzina, il caffè al bar, la metro) ma altre (le bollette, i caffè a casa, la carta igienica) aumentano: nei Paesi Bassi si è fatto qualcosa

14 ott 2020

Nei Paesi Bassi i dipendenti pubblici riceveranno quest’anno un bonus di 363 euro che, come ha spiegato RTL Nieuws, è una forma di compensazione per le maggiori spese domestiche a cui si deve sottoporre chi, per via della pandemia da coronavirus, deve lavorare da casa. Altri paesi stanno pensando di fare qualcosa di simile e, con ogni probabilità, è qualcosa di cui si parlerà anche in Italia, dividendo chi ritiene che il lavoro da remoto comporti maggiori spese domestiche e chi invece pensa che permetta di guadagnare tempo e risparmiare soldi, e che quindi non serva nessun bonus.

Il bonus per i dipendenti pubblici olandesi che lavorano da casa – e continueranno a farlo, visto il nuovo parziale lockdown appena deciso – è arrivato durante le negoziazioni del nuovo contratto collettivo ed è una diretta conseguenza di uno studio fatto da NIBUD, un istituto nazionale che «fornisce informazioni e consigli di carattere finanziario per famiglie» ed è in parte finanziata anche dal governo.

A luglio NIBUD aveva stimato che lavorare da casa costasse in media due euro al giorno in più a ogni lavoratore, quindi – senza contare sabati e domeniche – un po’ più di 40 euro al mese e circa 500 euro l’anno. La stima era stata fatta prendendo in considerazione i consumi energetici, idrici e di gas, i caffè e le altre bevande consumate, “l’ammortamento di sedia e scrivania” e anche l’uso di carta igienica. In altre parole, tutte le cose il cui consumo aumenta quando si passano a casa le 40 ore circa che si trascorrerebbero al lavoro.

Con riferimento alle cifre di NIBUD, RTL Nieuws ha parlato di calcoli secondo i quali «chiunque beva sei tazze di tè o caffè al giorno, spende 70 centesimi», di un po’ più di un euro al giorno per il riscaldamento degli ambienti domestici in cui si lavora e anche di «0,025 euro al giorno per la carta igienica». Non sono invece stati calcolati i costi di computer, telefoni o altri strumenti più propriamente lavorativi perché quelli, nei Paesi Bassi così come in Italia, dovrebbero già essere previsti per chi lavora da casa.

– Leggi anche: I paesi che offrono un visto per lavorare da remoto

A chi propone di pagare di più chi lavora da casa, si contrappone chi sostiene che non sia necessario perché lavorando da casa si risparmia. Nei Paesi Bassi questa è la posizione della AWN, un’associazione di datori di lavoro che ha fatto notare come certe aziende continuano nonostante tutto a sostenere spese di altro tipo, per esempio per le auto o i telefoni aziendali. Com’è ovvio, comunque, è un discorso che è molto difficile affrontare in termini generali, senza considerare le differenze che esistono tra un lavoro e l’altro, e quindi tra un lavoratore e l’altro.

Di forme di compensazione per le spese sostenute lavorando da casa – o per regolare meglio gli obblighi dei datori di lavoro verso la fornitura di strumentazioni adeguate per il lavoro da casa – si sta parlando, come ha scritto Reuters, anche in Spagna, in Germania e nel Regno Unito, ma nessun paese è per ora più avanti dei Paesi Bassi sulla questione.

Intanto, si discute anche di come le aziende stesse potrebbero o dovrebbero cambiare i “benefit” per i loro dipendenti: CNN, per esempio, ha citato casi di aziende che offrono servizi di lavanderia porta a porta (si manda qualcuno a casa del dipendente per prendere i vestiti sporchi e riportarglieli lavati) o anche maggiori offerte per i lavoratori con figli. Il Wall Street Journal, invece, ha raccontato come Microsoft stia pensando di aggiungere a Teams, software di chat e strumenti per la collaborazione in ambito aziendale, la possibilità di fare un “virtual commute“, che vorrebbe dire prendersi, prima e dopo il lavoro vero e proprio, un po’ di tempo per pensare con più calma alla giornata lavorativa che sta per iniziare e a quella appena finita: qualcosa di simile a quello che molti pendolari fanno (o facevano) andando e tornando dal lavoro.

lunedì 19 aprile 2021

Gli effetti dello Smartworking sui Comuni in Italia

Da Money.it 

Il duro impatto dello smart working sui Comuni di cui nessuno parla

di Patrizio Messina, 15 ott 2020

Lo smart working ha un enorme impatto anche sui Comuni, dal fronte del gettito fiscale ai trasporti pubblici, dal fenomeno della migrazione a quello immobiliare e ambientale.

Dopo aver analizzato gli effetti dello smart working sui dipendenti e sulle aziende, oggi passiamo a fare un’analisi riguardo a come esso impatterà a livello comunale.

Perché è logico che un tale sconvolgimento delle abitudini lavorative e produttive non può non avere ripercussioni, anche profonde, sui diversi aspetti di una comunità.

Affrontiamo l’argomento suddividendo questo approfondimento in più paragrafi, ognuno dei quali va ad esaminare un diverso aspetto coinvolto nel processo.

1) Gettito fiscale

La diffusione del telelavoro, a livello di introiti comunali, prenderà due differenti pieghe: nei Comuni più piccoli di provincia sarà una vera manna dal cielo mentre per le grandi città sarà un problema molto grosso.

Lo smart working avvierà diversi cambiamenti nelle abitudini lavorative dei dipendenti e nella gestione delle aziende. Le persone tenderanno a spostarsi nei Comuni più piccoli e tranquilli lontano dai grossi centri urbani, mentre a livello aziendale inizierà un rimpicciolimento dei cespiti che potrebbe sfociare nella conclusione di tenere solo un ufficio ad ore in centro e tutto il resto alienato, oppure potrebbero optare per spostarsi lontano dalla città dove vi sono costi di gestione più bassi e tenere in centro solo un ufficio di rappresentanza.

Questo però si traduce in un calo vistoso del gettito fiscale delle città.

Se le aziende si spostano in provincia e le sedi cittadine si restringono, con essi si restringono anche le imposte e le tasse comunali che esse pagano. Inoltre, quando questo fenomeno diventerà consistente molti immobili saranno costretti a cambiare destinazione d’uso, che da uso ufficio passerà probabilmente ad uso abitativo.

Anche questo farà abbassare gli introiti fiscali comunali. Ma non finisce qui.

Il minor numero di lavoratori che frequenteranno la città renderanno superflue molte attività il cui core business prevedeva l’erogazione di servizi a quest’ultimi. Vedesi ad esempio i bar, fast-food, le trattorie e tutte quelle attività tipicamente frequentati da lavoratori in pausa pranzo, o mentre sono intende ad effettuare il trasferimento casa/lavoro.

Certo, qualcuno di loro modificherà l’attività per renderla attrattiva la sera. In pratica farà in modo di modificare il proprio pubblico target di riferimento, ma quelle dei quartieri più periferici difficilmente potranno riuscire nell’intento e, alla fine, in molti saranno costretti a chiudere, e con esso il Comune perderà una parte dei suoi proventi fiscali.

Dall’altro lato, però, i piccoli Comuni di provincia vedranno aumentare la popolazione e di conseguenza aumenterà anche la domanda di beni e servizi. Questo comporterà un probabile aumento delle dimensioni delle attività commerciali site in questi piccoli centri di provincia, nonché l’apertura di nuove attività, che come conseguenza avranno quella di aumentare il gettito fiscale comunale.

Inoltre, con l’introduzione del processo di digitalizzazione dei processi, l’abbattimento dei costi produttivi che si otterrà grazie all’avvio della quarta rivoluzione industriale permetterà di avviare tutta una serie di attività che mezzo secolo fa erano state sbattute fuori dal mercato dallo sviluppo delle PMI.

Queste attività saranno delle micro-aziende, quasi sempre a gestione familiare, che porteranno in auge una produzione estremamente geo-localizzata a filiera corta o cortissima ma che in ogni caso genererà un ulteriore gettito fiscale per i piccoli centri di provincia.

2) Costi dei servizi e trasporto pubblico

L’altra faccia della medaglia è rappresentato dalle spese che i Comuni devono sostenere per lo svolgimento delle varie attività comunali. Anche in questo caso la ripercussione sulle casse comunali sarà differente rispetto alle dimensioni del centro urbano.

Le grandi città, che fino ad oggi hanno visto una concentrazione di attività lavorative e commerciali nel loro territorio, hanno anche sviluppato adeguati sistemi di trasporto pubblico che permettessero ai lavoratori di recarsi nei loro posti di lavoro, nonché tutta una serie di servizi necessari per sorreggere in loco una grande mole di cittadini.

In realtà questa affermazione andrebbe calibrata all’effettiva realtà dei fatti, in quanto molte città, che pur hanno un volume di pendolari enorme hanno un’offerta di mezzi pubblici e di servizi alla cittadinanza a dir poco carente. Le città hanno un sistema di trasporto pubblico e di servizi, seppur sottodimensionato, sicuramente di dimensioni tali da differenziarsi ampiamente dai centri urbani di provincia.

Questi servizi hanno un costo di gestione notevole che viene ammortato, spesso solo parzialmente, dalla vendita di biglietti e abbonamenti nel caso del trasporto pubblico, oppure mediante un costo calmierato per gli altri servizi.

Le grandi città, che hanno anche i sistemi di trasporto più ramificati e costosi da gestire, vedendosi ridurre di molto il volume dei passeggeri subiranno una contrazione notevole degli incassi, un grosso problema per le casse comunali. Dovranno continuare a manutenere tutto l’arredo urbano, il verde pubblico e quant’altro ma potendo usufruire di un gettito fiscale inferiore rispetto a prima.

Ma questo che cosa comporterà?

In futuro si noterà quasi sicuramente un abbassamento del livello dei servizi, come ad esempio dei mezzi pubblici con una frequenza inferiore, arredo urbano che tenderà a degradarsi e non essere più manutenuto, eccetera.

Di conseguenza, questo porterà ad un aumento del traffico veicolare dovuto a quei dipendenti che per vari motivi lavorano in aziende che non applicano lo smart working ma che troveranno via via meno pratico usare i mezzi pubblici o avranno timore di girare a piedi.

Se non si interverrà con un apposito trasferimento di risorse finanziarie dal livello statale a quello comunale che va ad appianare il calo dei gettito fiscale locale la situazione potrebbe scappare di mano come in quelle città americane stile Detroit, diventate nel tempo un vero e proprio inferno.

Di contro, le piccole località di provincia aumenteranno il proprio gettito fiscale. Avranno sì un aumento delle spese di gestione, ma spesso questo aumento sarà inferiore all’aumento degli incassi. Detto più semplicemente: da un lato avranno un aumento del gettito fiscale ma dall’altro aumenteranno anche alcune spese che devono affrontare, come quelle necessarie per predisporre un maggior numero di asili, scuole elementari, maggiore manutenzione dell’arredo urbano, eccetera. Tuttavia, le spese che aumentano potrebbero essere inferiori rispetto ai potenziali maggiori incassi che otterranno, e questo comporta un miglioramento economico nella gestione dei flussi di cassa.

In un certo qual senso, più il Comune è piccolo migliori saranno i conti pubblici nel loro futuro.

3) Migrazioni

Ovviamente, il ridimensionamento delle imprese se non addirittura lo spostamento fisico in un’altra zona della nazione provocherà automaticamente una migrazione dei cittadini residenti nelle grandi città verso i Comuni della provincia o verso il Sud.

Se fino ad ora tutti cercavano di vivere il più vicino possibile ai grossi centri urbani in modo da ridurre il disaggio di trasferta casa/lavoro, adesso le cose tenderanno a ribaltarsi.

Le città che prima erano quelle che possedevano un maggior numero di attività economiche vedranno nel tempo un drastico calo dei residenti. Si sta già notando questo fenomeno in città come Londra, New York e Parigi, ma sicuramente il fenomeno inizierà presto anche nelle grandi città italiane.

Addirittura nella grande mela si stima che ci sia, al momento, una migrazione verso i piccoli centri e verso gli Stati del Sud stimata in 100 mila abitanti all’anno. Sono tantissimi ed è una cosa che non accadeva più dalla depressione degli anni ’30.

Oltre che alle questioni viste prima, come l’impatto sul gettito fiscale comunale, sull’erogazione dei servizi e i costi annessi, un calo del numero di abitanti - per di più se esso avviene in tempi rapidi, - comporta uno sconquasso a livello sociale ed economico.

Cose simili non sono una novità e durante il XX secolo sono accadute più volte in più nazioni. Quello che accade è un crollo del reddito medio degli abitanti della città, che porta con sé un automatico aumento della micro-criminalità e la trasformazione di tutto il centro urbano in una specie di grosso ghetto.

L’esempio più lampante è la già citata città di Detroit, che ad un certo punto ha visto la chiusura di gran parte delle fabbriche e una drastrica riduzione dell’indotto legato al mondo dell’automobile, innescando una migrazione dei suoi abitanti verso altri lidi in cerca di fortuna.

Hanno abbandonato la città le persone più qualificate, che potevano facilmente ricollocarsi altrove, ma sono rimaste in loco tutta quella massa di persone che prima lavorava nelle posizioni lavorative di bassissimo profilo e che non ha alcuna possibilità di reinventarsi o ricollocarsi da altre parti.

A questo punto, andata via la parte più produttiva della città, i meno produttivi si sono ritrovati in condizioni economiche disperate e si sono dovuti adattare per sopravvivere. Cose di questo tipo potrebbero accadere, in prospettiva, negli attuali grossi centri urbani d’Italia.

Se noi consideriamo che i lavori che verranno maggiormente telematizzati sono quelli da ufficio e di concetto, e quindi a più alta concentrazione di qualifiche, e se aggiungiamo che le new-entry provenienti dall’estero sono semi-analfabete e clandestine, si può già fare una proiezione plausibile di cosa accadrà in futuro.

Ci ritroveremo con grossi centri urbani che piano piano si spopoleranno di persone qualificate e si popoleranno di persone di basso rango sociale e culturale. Queste ultime saranno impossibilitate a integrarsi in un mondo lavorativo fondato sulla digital economy, in quanto non sufficientemente qualificate a svolgere questo tipo di mansioni, ed inoltre sono anche tagliate fuori dall’apertura di micro-aziende locali di produzione artigianale o a filiera corta.

In pratica, l’essere giovani, virguti e possedere due braccia, in futuro, non servirà quasi a nulla perché tutta la produzione ruoterà intorno alle idee, alla cultura, all’automazione e all’ingegno.

4) Ambiente

Un calo della popolazione nei grossi centri porterà anche delle buone notizie. La principale sicuramente riguarda l’abbassamento dei tassi di inquinamento, che è notoriamente un problema legato ai grandi centri urbani.

Ricorderete sicuramente le vecchie strategie delle targhe alterne, l’uso del car pooling, l’abbassamento delle temperature degli edifici in inverno, eccetera.

Se diminuisce la popolazione si ottengono i medesimi benefici automaticamente. Meno persone significa meno spostamenti, così come meno ambienti da climatizzare. Si dovrebbe quindi notare un calo di emissioni di CO2 e delle pericolose polveri sottili tipicamente legate al riscaldamento domestico.

Tuttavia occorre anche considerare che le persone non spariscono nel nulla, e quindi tendenzialmente continueranno a inquinare, ma da un’altra parte. Se si spostano lungo tutto il territorio anche l’inquinamento si diluirà lungo tutto il territorio.

Occorre però considerare altri aspetti: innanzitutto molti lavori diventando telematizzati non necessiteranno più uno spostamento quotidiano, e quindi ci sarà sicuramente un calo di emissioni dovuto all’utilizzo delle automobili e anche per via del minor utilizzo dei mezzi pubblici.

Inoltre, vivere in centri urbani più piccoli permette di compiere molte mansioni domestiche quotidiane senza necessità di usare un’auto. Pensate ad esempio a fare la spesa, accompagnare i figli a scuola o andare in palestra. In piccoli centri urbani si può spesso fare tutto a piedi, o in ogni caso, in genere è sicuro spostarsi in bici anche considerando le distanze estremamente contenute.

Di contro, aumenteranno notevolmente gli acquisti online e di conseguenza le consegne di merci per posta, il che si traduce in furgoni dei corrieri che viaggiano in lungo ed in largo per tutta la rete stradale nazionale.
Questo produce un sicuro inquinamento, tuttavia un furgone che gira per diversi comuni a consegnare colli inquina meno rispetto a tutti i singoli acquirenti che autonomamente andavano a comprare i prodotti recandosi tutti in un centro commerciale.

Un altro aspetto da considerare è sicuramente quello dei riscaldamenti. Infatti, rimanendo più a lungo dentro casa aumenterà sicuramente la componente dell’inquinamento domestico. Se però da un lato è sicuramente vero che tale inquinamento aumenterà statisticamente in modo considerevole, anche per via degli immobili che fuori dai grossi centri sono dimensionalmente più grandi, occorre anche dire che gli immobili in zone meno urbanizzate si possono far diventare facilmente a impatto zero o comunque diminuirlo notevolmente.

Facile è installare pannelli solari fotovoltaici o termici, coibentare l’esterno con un cappotto termico, modificare gli interni installando riscaldamenti a parete o a pavimento, eccetera. Cose che teoricamente si possono fare anche negli alloggi in centro, ma siccome sono in genere condominiali non è mai una cosa così agevole avviare modifiche di questo tipo quando ci sono diversi punti di vista e diversi redditi tra gli abitanti nello stesso edificio.

5) Immobiliare

Vista l’importanza che riveste il possesso di immobili in Italia, come non focalizzarsi sul settore ed in particolar modo sull’investimento immobiliare in una società di lavoratori che via via verranno telematizzati.

In futuro osserveremo un calo della domanda di immobili, sia ad uso abitativo che ad uso lavorativo, che coinvolgerà tutti i grandi centri urbani. Questo si tramuterà in un calo delle quotazioni, che in alcuni casi spingerà i proprietari degli stessi a variarne la destinazione d’uso per attutire l’impatto economico negativo e recuperare il recuperabile.

Tuttavia, il potenziale rientro dei lavoratori telematici nei propri luoghi di origine farà aumentare il valore agli immobili dei piccoli paesi di provincia. Inoltre, molti potrebbero cercare case più comode fuori porta dando linfa ai costruttori edili che inizieranno a costruire gli immobili secondo le nuove esigenze.

Tale sccenario potrebbe rilanciare anche un’economia basata sull’adeguamento ecologico di vecchi immobili, oppure le attività legate al cambio di destinazione d’uso degli immobili cittadini o adeguarli alle nuove esigenze.

6) Università e studenti

Un ultimo aspetto è quello che riguarda l’impatto delle attività telematiche a livello universitario. Infatti, le grandi città sono in genere anche delle città universitarie ed hanno una parte considerevole dell’economia locale che ruota attorno agli studenti universitari.

Le Università vedranno, adesso, una spinta notevole verso la formazione a distanza. Non solo per via degli strascichi legislativi che lascerà la gestione della pandemia ma anche per via dei notevoli tagli che i governi dovranno effettuare sulle spese, il cui fine sarà quello di rientrare il prima possibile all’interno dei parametri europei per la stabilità economica.

Fra un po’ di tempo potremmo ritrovarci con gli studenti che dovranno scegliere tra continuare ad avere la possibilità di un’istruzione economica e alla portata delle famiglie italiane, ma che dovranno obbligatoriamente compiere la maggior parte del percorso a casa. Oppure, frequentare l’Università come in passato ma farlo privatamente, più o meno come accade negli Stati Uniti, dove le famiglie italiane saranno costrette a pagare delle rette che costerà non meno di 10 mila euro annui per le facoltà più economiche come quelle umanistiche e che potrà arrivare a 30 mila euro o più per alcuni indirizzi di ingegneria oppure per medicina.

Siccome in pochi si potranno permettere di spendere così tanto per l’istruzione, visto che qui non siamo negli USA che fin dalla culla i genitori mettono da parte i soldi per poi mandarli al college, quello che accadrà è che tutta un economia cittadina basata sugli studenti, evaporerà.

Scomparirà il business dell’affitto camere per studenti, così come tutte quelle attività commerciali che vendevano libri, le edicole, i locali tipici di ritrovo per studenti, eccetera.

Tra l’altro, uno spopolamento delle città dovuto alla “scomparsa” degli studenti universitari significa, anche, un innalzamento dell’età media dei suoi cittadini.

Questo si tramuta in un cambio delle logiche economiche che sorreggono il centro urbano stesso, nonché un cambiamento del core business delle attività attrattive della città che ne subirà l’influenza dovendo adattarsi ad un pubblico sicuramente meno frizzante ed incline alla movida rispetto a quello universitario.

D’altro canto, in una città che vede trasformare i propri posti di lavoro per via dello smart working si innescherà un ulteriore problema a carico degli studenti: grosse difficoltà a trovare lavoretti da fare per mantenersi gli studi e a trovare aziende in cui fare degli stage per arricchire il curriculum.

Diventerà teoricamente più facile lavorare da studente vicino casa in provincia che non in città.