mercoledì 27 gennaio 2016

Non è detto che l’uomo sia l’ultimo passo dell’evoluzione...

Da La Stampa

Il ricordo dell’amico Tomaso Poggio, fisico del Mit

di Francesco Rigatelli





Un maestro, un collega, un compagno di vacanze in Liguria.
Questo è stato negli anni l’informatico appena scomparso Marvin Minsky (New York, 9 ago 1927 - Boston, 24 gen 2016; padre dell'intelligenza artificiale) per il fisico Tomaso Poggio, direttore del «Brains, minds and machines» del Mit di Boston, il centro dove si punta a replicare i meccanismi del cervello per i robot. 

All’inizio eravate come maestro e allievo? 

«La prima volta che lo incontrai, nel 1973, lavoravo ancora al Max Planck Institute di Monaco di Baviera. Abituato alla formalità degli scienziati tedeschi, mi colpì Minsky in scarpe da ginnastica e con una cintura di corda costruita da solo. Ero poco più che studente, ma mi tenne a parlare per ore e mi accompagnò pure in albergo con la sua macchina scassata». 

Poi avete lavorato insieme? 

«Il mio primo posto al Mit, dove mi sono trasferito anni dopo, è stato il laboratorio sull’intelligenza artificiale da lui fondato. Nacque subito un’amicizia. Tra l’altro, mi capitò di occupare un ufficio che era stato suo. Anche le nostre mogli si conobbero e facemmo delle vacanze insieme a Levanto in Liguria». 

Che tipo era Minsky? 

«Amichevole e geniale. Sia lui sia sua moglie, un medico, erano stati bambini prodigio. Io mi sentivo come un ex allievo divenuto collega. Lui mi sembrava un bambino che giocava con le idee, un innamorato della scienza e del problema dell’intelligenza. Ha mantenuto fino all’ultimo quell’atteggiamento. Disponibile a discutere con tutti e tenero con i più piccoli, perché si era sempre sentito uno di loro, un bambino». 

Cosa la colpiva dei suoi studi? 

«Quella grande indagine sulla natura dell’intelligenza del saggio “The society of mind”: può essere considerata una moderna filosofia sociale sull’unione delle intelligenze e il primo sguardo di uno scienziato su un sistema di calcoli fattibili da un cervello o da una macchina». 

E il dibattito odierno sull’intelligenza artificiale e sulle paure che evoca? 

«Il libro “Perceptors” è un’analisi sulle reti neuronali che va proseguita. Funzionano i sistemi di riconoscimento vocale o di visione, come le auto che guidano da sole, ma non c’è un sistema completamente intelligente, capace di replicare la coscienza umana». 

Ci sarà un giorno? 

«Non è detto che l’uomo sia l’ultimo passo dell’evoluzione. È possibile che i robot ci rimpiazzino come specie dominante, ma il vero rischio a breve sono i posti di lavoro».

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