venerdì 8 maggio 2020

Una critica artistica a Bansky...



di Cesare Alemanni, 7 mag 2020

Perfetto per un pubblico in cerca di ammaestramenti morali ma con un costante deficit di attenzione, non stupisce che la parabola dello street artist senza volto sia approdata da tempo a una retorica indistinguibile dal populismo più becero



A fine anni ’60 sui convogli della metropolitana di New York cominciarono ad apparire strane scritte. Dicevano semplicemente “TAKI 183, BARBARA 62, LEO 136”. Incuriosito dalla questione, un giornalista del New York Times riuscì a risalire all’identità di alcuni autori. Scoprì che erano adolescenti, spesso appartenenti a minoranze etniche o culturali, e che vivevano in aree periferiche dei five boroughs newyorkesi. Alla domanda su cosa li spingesse a scrivere il proprio nome (e numero civico) dappertutto rispondevano cose come “sento di doverlo fare”, oppure che non capivano perché le loro piccole firme facessero tanto scalpore quando l’inquinamento visivo di pubblicità e manifesti elettorali era già ovunque. Nel giro di mesi il fenomeno si diffuse a macchia d’olio. Da semplici scritte, i pittogrammi si fecero via via più complessi fino a diventare vere e proprie opere in cui, abdicando al loro ruolo di significanti, le lettere si disarticolavano in astrazioni di puri segni. Era nato il writing, ovvero il costante pomo della discordia tra fautori del decoro e frange della gioventù urbana.

Come ho scritto nel mio libro Rap: una storia, due Americhe: “Non è un caso se i vagoni delle metropolitane sono stati una delle prime superfici a essere prese di mira dai graffiti. Attraversando le città di quartiere in quartiere, i treni erano una galleria semovente che portava in mostra i nomi di giovani periferici anche laddove i loro corpi non erano tra i più benvenuti. Come scrisse Norman Mailer in un saggio pubblicato da Esquire nel 1974: i primi writer di fatto non dipingevano altro che «promozioni» di loro stessi. Se Warhol aveva detournato la pubblicità di massa in arte d’avanguardia, il writing trasformò un’arte antica come il graffito in una pubblicità d’avanguardia di singoli individui”. 

Proprio il mondo che gravitava intorno a Warhol fu tra i primi ad accorgersi del fenomeno. A fine anni ’70, il writing ottenne così il lasciapassare per il salotto buono dell’arte di Downtown Manhattan. Nel giro di pochi mesi, ragazzi poco più che adolescenti si videro commissionare pezzi per collezionisti tedeschi o italiani, gallerie svizzere o giapponesi, ”a cifre più alte di quelle che le loro famiglie guadagnavano in un anno. Il tutto mentre curatori e critici, intristiti da troppi white cube, facevano a gara per celebrare quell’arte insieme così pop e primitiva” (sempre da Rap). Durò poco: l’eccesso di esposizione bruciò rapidamente l’ossigeno intorno ai writer, e il lascito più significativo di quel periodo restano i lavori di due artisti che, appropriandosi in maniera lucida e consapevole dei codici spontanei dei writer, li tradussero in poetiche più commensurabili al sistema dell’arte: Basquiat e Haring.

Per oltre vent’anni il writing tornò così a ingaggiare, nelle strade e nelle metropolitane di mezzo mondo, la propria battaglia con le autorità municipali. 

Fino a quando, all’alba del nuovo millennio, una nuova generazione di ventenni non riscoprì le intuizioni proprie di Haring e le cooptò in un movimento in cui grafica, pastiche culturali, riferimenti al pop o addirittura ai grandi maestri dell’arte, anziché restare su carta venivano riversati in strada. Per distinguerla dal puzzo di vandalismo del writing e dei grafitti, la critica cominciò a chiamarli street-artist. L’idea era che l’arte non potesse rimanere confinata in un museo o in una galleria. L’arte non potesse avere dei custodi: curatori e critici. L’arte non potesse essere troppo algida e concettuale. Insomma: l’arte doveva comunicare. Doveva essere pubblica e immediata. Raggiungere la gente. Portare il bene dell’arte alla gente. Per paradosso, proprio alcuni custodi, nonché gallerie e musei dove normalmente ci si reca per Hans Haacke e John Baldessari, finirono coll’abbracciare la street art. Cosa che non dispiacque peraltro a molti suoi esponenti. In Italia, uno dei più entusiasti sostenitori del fenomeno fu per esempio Vittorio Sgarbi, che dedicò alla scena italiana una mostra al Pac di Milano.

Anche l’hype della street art però lentamente sfumò e a inizio anni ‘10 quasi tutti i suoi esponenti tornarono a livelli di quotazione decisamente più blandi. Tutti tranne uno che aveva le carte in regola per restare. Innanzitutto: il mistero che circondava la sua figura, perfetto alimento per la curiosità dei tabloid. E poi: la capacità di impiastricciare i muri di Londra con un’ironia sfocata da post-Young British Artist. Nonché il fiuto di intuire e canalizzare una serie di sentimenti molto diffusi nella controcultura della City anni Zero. Che è poi la marmellata, decisamente locale e iper-specifica, da cui tuttora scaturisce tutta la sua retorica: in particolare un generico rigurgito anti-sistema di cui già si erano nutriti molti tra i più sterili movimenti no global; la denuncia delle iniquità sociali e degli eccessi orwelliani della Big Society; la nostalgia per una idealizzata umanità emotivamente più sostenibile. Tematiche nette che ben si sposavano con l’altrettanto netto outline – i giochi tra pieno e vuoto, tra bianco e nero – dei suoi stencil. Che infatti si sedimentarono rapidamente nell’immaginario contemporaneo, prendendo a circolare come proto-meme in un internet pre-memetico. Del resto l’incauta spettacolarizzazione delle ambivalenze che veicolavano si confaceva a un pubblico in cerca di ammaestramenti morali; l’immediatezza sintetica dei paradossi che proponevano era straordinariamente adatta ad affascinare milioni d’individui in costante deficit di attenzione. Le corde finto-umaniste che toccavano erano le stesse della cosiddetta folk politics ormai dominante nel discorso culturale e politico della sinistra. Il senso comune che sobillavano era quello che sostiene che il bene e il giusto siano sentimenti che albergano spontaneamente nella pancia e non idee che il cervello si forma con fatica ed esperienza.

"Fu così che Banksy smise di essere considerato un vandalo o un artista di strada e diventò semplicemente un artista, anzi un grande artista, anzi forse il più grande artista vivente"

Fu così che Banksy smise di essere considerato un vandalo o un artista di strada e diventò semplicemente un artista, anzi un grande artista, anzi forse il più grande artista vivente. Che molte delle provocazioni a buon mercato (o, più spesso, sulla pelle di contesti in cui il concetto di buon mercato non è contemplabile) che aveva proposto nel corso degli anni fossero scivolate fuori da qualunque discorso progressista per affluire nel patrimonio di un populismo sempre più becero, irriflessivo ed esacerbato non parve particolarmente rilevante. Quantomeno non sufficiente a invitare a un riesame del contenuto delle immagini con cui, riempiendo le strade, aveva riempito la rete e da lì le idee di milioni di persone. 

Non sorprende quindi che, nel mezzo della più grave crisi sanitaria in oltre un secolo, la parabola da pubblicitario più noto al mondo di Banksy approdi a un’immagine che non è solo indistinguibile dall’inquinamento visivo contro cui TAKI 183 intendeva ribellarsi, ma è anche identica alla retorica politica più reazionaria intorno all’emergenza. Con quel richiamo, talmente facile e semplicistico da essere stato rigettato da molti dei diretti interessati, al supposto eroismo di persone che in realtà sono prima di tutto cittadini e professionisti. Ai quali, spesso e in molti contesti, sono mancate attrezzature basilari per svolgere il proprio lavoro in condizioni di sicurezza. Un’immagine che gioca (in questo caso letteralmente) con il sublime di bassa lega degli assoluti universali – qui: l’infanzia e il ricordo – per amplificare il volume emotivo del presente, anziché mettere in discussione le condizioni in cui esso si verifica per tendere verso un più alto orizzonte etico ed estetico. Ma questo è quel che ti aspetteresti dal lavoro di un artista. È forse troppo da chiedere a un propagandista.


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