lunedì 2 dicembre 2013

L'Opec: un fallimento di successo

Da IlSole24Ore

Va in scena il fantasma dell'Opec



Con un ossimoro sferzante, il Cato Institute, uno dei principali think tank conservatori Usa, di recente l'ha liquidato come «un fallimento di successo». L'Opec, il Cartello dei Paesi esportatori di petrolio, che per anni ha dominato il mercato del greggio ricavandone ogni anno montagne di denaro, pare entrato nel tunnel di una lunga decadenza. E senza che si possa escludere la sua dissoluzione.

Nata con la Conferenza di Baghdad, nel settembre 1960, dalla volontà dei quattro maggiori esportatori mediorientali (Iran, Irak, Kuwait e Arabia Saudita) e del Venezuela di rompere il monopolio delle grandi aziende energetiche private occidentali (le mitiche "sette sorelle", leader incontrastate nell'estrazione e raffinazione del greggio e detentrici dell'80% delle riserve petrolifere accertate in quegli anni), l'Opec ha centrato presto il suo obiettivo grazie a una raffica di nazionalizzazioni dei giacimenti allargandosi via via agli attuali 12 membri, tutti i maggiori esportatori mondiali di oro nero. Senza però inglobare un Paese-chiave come la Russia, capace di condizionare i mercati con oltre 7 milioni di barili al giorno (mb/g) di export: fin dai tempi dell'Urss, Mosca ha di fatto coordinato le proprie mosse di mercato con il Cartello (di cui è tuttora "membro osservatore"), considerando l'Opec una struttura utile ai propri fini (massimizzare gli introiti forniti dall'esportazione di energia), ma preferendo mantenere un'ampia autonomia nel decidere i livelli di produzione.


Oggi il Cartello appare prigioniero del ricordo dei "tempi felici", quando bastava un repentino taglio produttivo di uno o due mb/g per moltiplicare gli introiti e gettare nel panico i Paesi consumatori occidentali, aumentando nel contempo la propria capacità di ricatto politico-strategico. Proprio quarant'anni fa l'Opec toccò l'apice del suo potere: il blocco dell'export di petrolio, decretato il 16 ottobre 1973 verso l'Europa e gli Usa che, con diversa intensità, sostenevano Israele durante la guerra del Kippur, in quel momento ancora in corso, causò un'impennata dei corsi mondiali del greggio, con il prezzo del barile quadruplicato in un trimestre da 3 a 12 dollari.


Ciò gonfiò le rendite dei membri del Cartello, creando di riflesso il fenomeno dei "petrodollari", cioè il ritorno sui mercati finanziari euro-americani di buona parte degli enormi surplus delle bilance dei pagamenti dei grandi esportatori di greggio, che portò soprattutto Iran, Kuwait, Libia e Arabia Saudita a controllare, in tutto o in parte, molte grandi imprese industriali, bancarie e immobiliari occidentali. Pcf Energy, uno dei maggiori think tank energetici Usa, calcola che le somme impiegate dall'Opec in Occidente sotto varie forme superino tuttora i 1.100 miliardi di dollari. Ma anche qui è iniziato il declino.



Il ripetersi rituale delle riunioni semestrali in cui si decidono le quote produttive assegnate a ogni membro (la 164esima si terrà tra un paio di giorni a Vienna) non cancella l'impressione di un inesorabile "viale del tramonto". Il sistema-Opec non fa più tremare il mondo. Anzi, si è dissolto in un'anonima routine. Oggi quanti rammentano il nome di Ahmed Zaki Yamani, ministro saudita del petrolio per un quarto di secolo e segretario del Cartello per 18 anni, che per una dozzina d'anni, fino al 1986, ebbe tra le mani il destino economico, oltre che energetico, del mondo intero? E chi si ricorda più delle "domeniche a piedi" adottate in Italia nel novembre 1973, unito all'illuminazione stradale ridotta del 40%, alle insegne e vetrine spente, ai negozi chiusi entro le 19, teatri, cinema e tv entro le 23, bar e ristoranti aperti solo fino alle 24?


Alla base del declino dell'Opec c'è la rivoluzione prodotta nell'ultimo decennio dallo sfruttamento sempre più intensivo dell'oil-shale (il greggio estratto con il metodo dell'Hydraulic fracking, frantumando mediante acqua iniettata ad altissima pressione gli scisti argillosi che lo imprigionano). Questa risorsa abbonda un po' in tutto il mondo (ma poco nei Paesi Opec), con almeno 1.150 miliardi di barili di riserve stimate economicamente estraibili (di cui ben 850 miliardi solo negli Usa), contro 1.669 miliardi di barili di riserve cosiddette "convenzionali", di cui il 72,6% detenuto dai membri del Cartello.


Il dominio dell'Opec sul mercato globale del greggio è così crollato da oltre il 50% dei primi anni 70 del XX secolo al 33% attuale: nell'ottobre scorso la sua produzione è scesa a 30,5 mb/g, il livello più basso dell'ultimo biennio, contro un totale mondiale di 91,8 mb/g. Per il Cartello si delinea una perdita di controllo del mercato che si proietta per almeno un ventennio. Per il tempo, cioè, in cui l'oil-shale costituirà un''alternativa economicamente conveniente a molti greggi convenzionali.


L'Opec potrà tornare, almeno in parte, all'antico potere? Nel lungo periodo è possibile: controlla quasi tre quarti delle risorse convenzionali, le più pregiate perché di estrazione in genere più agevole e quindi più redditizie. Ma all'orizzonte si profilano anni duri, caratterizzati da un costante eccesso di capacità produttiva di petrolio a livello mondiale.
La conseguenza saranno prezzi contenuti entro una fascia di 80-100 dollari al barile, sufficienti a mantenere redditizio il sistema estrattivo basato sul "fracking", senza peraltro escludere la minaccia di crolli momentanei sotto questa soglia per la ricorrente tentazione del Cartello di mandare fuori mercato il temuto oil-shale con la vecchia arma dei rialzi produttivi.


Commento:
Una precisazione, é shale oil o LTO (Light Tight Oil) che e'stato sviluppato negli ultimi 6-7 anni mentre il cosidetto oil shale che si riferisce ad un altro tipo di crudo non convenzionale. Personalmente considero che il peso dei paesi OPEC sia ancora molto rilevante.
rpedrina, 2 dicembre 2013 15.56.49

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