di Federico Rendina, 2 giu 2014
Mai nelle aree a rischio di terremoti, ma anche di instabilità geologica o di
qualche smottamento se piove forte.
E guai ad avvicinarsi alle grandi falde
acquifere, o a «risorse naturali già sfruttate o di prevedibile sfruttamento».
In ogni caso bisognerà mantenersi lontano dei fiumi e ancor più dalle dighe o da
"sbarramenti idraulici artificiali", ad almeno 10 chilometri dalle coste marine,
ad "adeguata distanza" dai centri abitati, lontani almeno 1 km dalle autostrade,
dalle principali strade extraurbane, dalle ferrovie.
Niente da fare al di sopra dei settecento metri di altezza, o dove esistono
«versanti con pendenza media maggiore del 10%». Da escludere anche le aree dove
gli animali o le vegetazioni abbiamo una qualche forma di particolare
protezione. E comunque andrà attentamente valutata, per ponderare l'eventuale
idoneità, anche la vicinanza «all'insediamento di produzioni agricole di
particolare qualità è tipicità», o anche ai «luoghi di interesse archeologico e
storico».
Ecco, ancora riservati, i criteri vincolanti per tentare di assolvere a una
missione decisamente ardua: piazzare nel nostro paese quel deposito nazionale
unico delle scorie nucleari.
Lo dobbiamo comunque realizzare per mettere al
sicuro i detriti ricavati dallo smontaggio delle nostre vecchie centrali
atomiche chiuse con il referendum del 1987, ma anche la non trascurabile
quantità di rifiuti radioattivi che continuiamo a produrre con l'attività
industriale o medica. Ci abbiamo provato più di una volta negli ultimi 25 anni.
Con fallimenti a catena. Alcuni clamorosi, come quello prodotto dalla sommossa a
furor di popolo che 11 anni fa ha costretto l'allora governo Berlusconi a
rimangiarsi il decreto che individuava, con il corredo di dotti pareri
scientifici, la soluzione del deposito geologico salino di Scanzano Jonico.
Nel frattempo si è cambiato cavallo, anzi cavalli. Niente più deposito
sotterraneo ma un deposito-bunker di superficie. Niente più decreti frutto del
solo lavoro degli scienziati: ci sarà un dettagliato confronto-mediazione con i
territori.
A giorni il documento ufficiale
I nuovi criteri per il
super-deposito, che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, dovrebbero essere
pubblicati ufficialmente in settimana dal primo artefice dell'operazione,
l'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Poi la
palla passerà alla Sogin, la società pubblica nata per smontare appunto le
nostre vecchie centrali, per gestirne i pericolosi detriti e appunto per
realizzare il deposito nazionale unico. Ma il percorso sarà ancora lungo,
lunghissimo.
Dopo il varo ufficiale dei criteri spetterà alla Sogin il compito di
pubblicare sul suo sito Internet «la proposta – si legge nella relazione con la
quale l'Ispra illustra i criteri - di Carta nazionale delle aree potenzialmente
idonee, del relativo ordine di idoneità delle aree identificate e del progetto
preliminare, per consentire alle Regioni, agli Enti locali, nonché ai soggetti
portatori di interessi qualificati, la formulazione di osservazioni e proposte
tecniche nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione». Due mesi durante i
quali la Sogin dovrà organizzare un seminario nazionale di proporzioni
decisamente ciclopiche. Parteciperanno «oltre ai Ministeri competenti e
all'Agenzia, le Regioni, le Province ed i Comuni sul cui territorio ricadono le
aree interessate dalla proposta di carta nazionale delle aree potenzialmente
idonee», nonché l'Upi (province, sempre che nel frattempo non vengano davvero
abolite) l'Anci (comuni), le associazioni degli industriali e le associazioni
sindacali "maggiormente rappresentative" delle zone interessate, insieme alle
università e agli enti di ricerca.
Poi una serie di passaggi ulteriori, con una nuova tornata di "indagini
tecniche" condotte sempre dalla Sogin, che avrà poi a disposizione ulteriori
nove mesi di tempo per procedere all'aggiornamento "finale" della mappa delle
aree considerate in grado di ospitare il deposito. Infine, se davvero si potrà
traguardare una fine, si tenterà la strada della consultazione con i
rappresentanti dei territori frutto dell'ultima selezione, tentando un
negoziato, magari grazie (azzarda qualcuno) alla promessa di affiancare a
deposito un centro di ricerca sulle tecnologie energetiche e ambientali che
catalizzi prestigio e soprattutto un po' di lavoro e di business per le comunità
locali. Il via libera dovrà venire in ogni caso dalla Regione.
A quel punto il
progetto del deposito potrà ufficialmente nascere con un decreto che dovrà
essere siglato da una folta compagine di ministeri: Sviluppo economico,
Ambiente, Infrastrutture, Istruzione e Ricerca.
Corsa a ostacoli
Missione ardua? Di più. Non sarà solo un problema
di tempi, inevitabilmente lunghi: non meno di quattro anni dalla pubblicazione
ufficiale dei criteri Ispra solo per arrivare alla soglia della proclamazione
ufficiale del sito. Mettendo in fila i primi vincoli individuati dall'Ispra la
missione diventa quasi impossibile. Perché incrociando le caratteristiche del
nostro territorio con gli infiniti criteri di esclusione già individuati
(criteri "minimi" e dunque ulteriormente integrabili in senso restrittivo,
specifica oltretutto l'Ispra) emerge un segnale già chiaro: la maggior parte
dell'Italia sarà tagliata fuori sin dall'inizio. Intere regioni probabilmente
non dovranno neanche adoperarsi per evitare di cadere nella mappa. E, c'è da
giurarci sin d'ora, gli amministratori locali delle zone selezionate avranno, o
comunque tenteranno di avere, buoni margini per alzare nuove barricate, potendo
contare su qualche provvidenziale (per loro) aiutino.
A frenare la volata finale del deposito potrà certo aiutare la ben nota
confusione di poteri tra Stato e amministrazioni locali. Sempre che non arrivi
davvero, e mostri di funzionare, l'ennesimo decreto "sblocca Italia" ora
annunciato da Matteo Renzi. Ma nel frattempo qualche buona carta da giocare
potrebbe venire dagli stessi criteri che l'Ispra si prepara a partorire
ufficialmente.
Auto-escludere a priori e sin d'ora intere regioni? Ci sta provando ad
esempio la Sardegna, con tutti i prevedibili rischi di contenzioso con lo Stato
a colpi di Consulta. Certo è che nell'intricata legislazione concorrente tra
Stato centrale e amministrazioni locali, oggetto di mille annunci di revisione
proprio perché negli ultimi vent'anni ha dimostrato di creare più guasti che
vantaggi, ci si domanda ad esempio cosa impedirà alle amministrazioni locali di
sottrarre dalla mappa le eventuali aree papabili sottoponendole, magari con
procedura accelerata, a vincoli paesaggistici o ambientali. O magari promuovendo
quelle "produzioni agricole di particolare qualità è tipicità" che ricadono nei
criteri di esclusione indicati dall'Ispra.
Trappole normative
Ma qualcuno potrebbe persino giocare sulle
nebulosità mostrata anche dall'ultima versione dei criteri definiti dall'Ispra
(che in queste ore potrebbe comunque avere qualche limatura finale). Prendiamo
il parametro logistico fondamentale di qualunque insediamento: l'accessibilità.
Bene, anzi male. Perché la bozza riservata dei criteri Ispra dispone
contemporaneamente, forse a causa di una distrazione che potrebbe essere sanata
nell'ultimissima versione da pubblicare, due cose che non sarà facilissimo
conciliare.
Tra le aree da escludere a priori vengono indicate quelle «che
siano a distanza inferiore a 1 km da autostrade e strade extraurbane principali
e da linee ferroviarie fondamentali e complementari».
Perché – viene spiegato – occorre «tener conto dell'eventuale impatto sul
deposito legato a incidenti che coinvolgono trasporti di merci pericolose (gas,
liquidi infiammabili, esplosivi, ecc.. )». Ma tra i criteri "di
approfondimento", cioè quelli che secondo l'Ispra devono essere attentamente
verificati per stabilire oltre ai criteri di esclusione anche i requisiti
vincolanti, c'è al contrario la «disponibilità di vie di comunicazione primarie
e infrastrutture di trasporto», in quanto – viene spiegato con altrettanta
sicurezza – «la presenza di infrastrutture (quali ad esempio autostrade, strade
extra urbane principali e ferrovie fondamentali e complementari, ecc...)
consente di raggiungere più agevolmente il deposito, minimizzando i rischi
connessi ad eventuali incidenti durante il trasporto dei rifiuti radioattivi».
Insomma, servono strade abbastanza lontane ma abbastanza a disposizione. Un bel
rebus.
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