mercoledì 4 giugno 2014

Dove andranno le nostre scorie nucleari del 1987?



di Federico Rendina, 2 giu 2014

Mai nelle aree a rischio di terremoti, ma anche di instabilità geologica o di qualche smottamento se piove forte. 

E guai ad avvicinarsi alle grandi falde acquifere, o a «risorse naturali già sfruttate o di prevedibile sfruttamento». In ogni caso bisognerà mantenersi lontano dei fiumi e ancor più dalle dighe o da "sbarramenti idraulici artificiali", ad almeno 10 chilometri dalle coste marine, ad "adeguata distanza" dai centri abitati, lontani almeno 1 km dalle autostrade, dalle principali strade extraurbane, dalle ferrovie.

Niente da fare al di sopra dei settecento metri di altezza, o dove esistono «versanti con pendenza media maggiore del 10%». Da escludere anche le aree dove gli animali o le vegetazioni abbiamo una qualche forma di particolare protezione. E comunque andrà attentamente valutata, per ponderare l'eventuale idoneità, anche la vicinanza «all'insediamento di produzioni agricole di particolare qualità è tipicità», o anche ai «luoghi di interesse archeologico e storico».

Ecco, ancora riservati, i criteri vincolanti per tentare di assolvere a una missione decisamente ardua: piazzare nel nostro paese quel deposito nazionale unico delle scorie nucleari. 
Lo dobbiamo comunque realizzare per mettere al sicuro i detriti ricavati dallo smontaggio delle nostre vecchie centrali atomiche chiuse con il referendum del 1987, ma anche la non trascurabile quantità di rifiuti radioattivi che continuiamo a produrre con l'attività industriale o medica. Ci abbiamo provato più di una volta negli ultimi 25 anni. Con fallimenti a catena. Alcuni clamorosi, come quello prodotto dalla sommossa a furor di popolo che 11 anni fa ha costretto l'allora governo Berlusconi a rimangiarsi il decreto che individuava, con il corredo di dotti pareri scientifici, la soluzione del deposito geologico salino di Scanzano Jonico.
Nel frattempo si è cambiato cavallo, anzi cavalli. Niente più deposito sotterraneo ma un deposito-bunker di superficie. Niente più decreti frutto del solo lavoro degli scienziati: ci sarà un dettagliato confronto-mediazione con i territori.


A giorni il documento ufficiale

I nuovi criteri per il super-deposito, che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, dovrebbero essere pubblicati ufficialmente in settimana dal primo artefice dell'operazione, l'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. Poi la palla passerà alla Sogin, la società pubblica nata per smontare appunto le nostre vecchie centrali, per gestirne i pericolosi detriti e appunto per realizzare il deposito nazionale unico. Ma il percorso sarà ancora lungo, lunghissimo.


Dopo il varo ufficiale dei criteri spetterà alla Sogin il compito di pubblicare sul suo sito Internet «la proposta – si legge nella relazione con la quale l'Ispra illustra i criteri - di Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, del relativo ordine di idoneità delle aree identificate e del progetto preliminare, per consentire alle Regioni, agli Enti locali, nonché ai soggetti portatori di interessi qualificati, la formulazione di osservazioni e proposte tecniche nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione». Due mesi durante i quali la Sogin dovrà organizzare un seminario nazionale di proporzioni decisamente ciclopiche. Parteciperanno «oltre ai Ministeri competenti e all'Agenzia, le Regioni, le Province ed i Comuni sul cui territorio ricadono le aree interessate dalla proposta di carta nazionale delle aree potenzialmente idonee», nonché l'Upi (province, sempre che nel frattempo non vengano davvero abolite) l'Anci (comuni), le associazioni degli industriali e le associazioni sindacali "maggiormente rappresentative" delle zone interessate, insieme alle università e agli enti di ricerca.

Poi una serie di passaggi ulteriori, con una nuova tornata di "indagini tecniche" condotte sempre dalla Sogin, che avrà poi a disposizione ulteriori nove mesi di tempo per procedere all'aggiornamento "finale" della mappa delle aree considerate in grado di ospitare il deposito. Infine, se davvero si potrà traguardare una fine, si tenterà la strada della consultazione con i rappresentanti dei territori frutto dell'ultima selezione, tentando un negoziato, magari grazie (azzarda qualcuno) alla promessa di affiancare a deposito un centro di ricerca sulle tecnologie energetiche e ambientali che catalizzi prestigio e soprattutto un po' di lavoro e di business per le comunità locali. Il via libera dovrà venire in ogni caso dalla Regione. 

A quel punto il progetto del deposito potrà ufficialmente nascere con un decreto che dovrà essere siglato da una folta compagine di ministeri: Sviluppo economico, Ambiente, Infrastrutture, Istruzione e Ricerca.


Corsa a ostacoli

Missione ardua? Di più. Non sarà solo un problema di tempi, inevitabilmente lunghi: non meno di quattro anni dalla pubblicazione ufficiale dei criteri Ispra solo per arrivare alla soglia della proclamazione ufficiale del sito. Mettendo in fila i primi vincoli individuati dall'Ispra la missione diventa quasi impossibile. Perché incrociando le caratteristiche del nostro territorio con gli infiniti criteri di esclusione già individuati (criteri "minimi" e dunque ulteriormente integrabili in senso restrittivo, specifica oltretutto l'Ispra) emerge un segnale già chiaro: la maggior parte dell'Italia sarà tagliata fuori sin dall'inizio. Intere regioni probabilmente non dovranno neanche adoperarsi per evitare di cadere nella mappa. E, c'è da giurarci sin d'ora, gli amministratori locali delle zone selezionate avranno, o comunque tenteranno di avere, buoni margini per alzare nuove barricate, potendo contare su qualche provvidenziale (per loro) aiutino.


A frenare la volata finale del deposito potrà certo aiutare la ben nota confusione di poteri tra Stato e amministrazioni locali. Sempre che non arrivi davvero, e mostri di funzionare, l'ennesimo decreto "sblocca Italia" ora annunciato da Matteo Renzi. Ma nel frattempo qualche buona carta da giocare potrebbe venire dagli stessi criteri che l'Ispra si prepara a partorire ufficialmente.

Auto-escludere a priori e sin d'ora intere regioni? Ci sta provando ad esempio la Sardegna, con tutti i prevedibili rischi di contenzioso con lo Stato a colpi di Consulta. Certo è che nell'intricata legislazione concorrente tra Stato centrale e amministrazioni locali, oggetto di mille annunci di revisione proprio perché negli ultimi vent'anni ha dimostrato di creare più guasti che vantaggi, ci si domanda ad esempio cosa impedirà alle amministrazioni locali di sottrarre dalla mappa le eventuali aree papabili sottoponendole, magari con procedura accelerata, a vincoli paesaggistici o ambientali. O magari promuovendo quelle "produzioni agricole di particolare qualità è tipicità" che ricadono nei criteri di esclusione indicati dall'Ispra.


Trappole normative

Ma qualcuno potrebbe persino giocare sulle nebulosità mostrata anche dall'ultima versione dei criteri definiti dall'Ispra (che in queste ore potrebbe comunque avere qualche limatura finale). Prendiamo il parametro logistico fondamentale di qualunque insediamento: l'accessibilità. Bene, anzi male. Perché la bozza riservata dei criteri Ispra dispone contemporaneamente, forse a causa di una distrazione che potrebbe essere sanata nell'ultimissima versione da pubblicare, due cose che non sarà facilissimo conciliare.

Tra le aree da escludere a priori vengono indicate quelle «che siano a distanza inferiore a 1 km da autostrade e strade extraurbane principali e da linee ferroviarie fondamentali e complementari».


Perché – viene spiegato – occorre «tener conto dell'eventuale impatto sul deposito legato a incidenti che coinvolgono trasporti di merci pericolose (gas, liquidi infiammabili, esplosivi, ecc.. )». Ma tra i criteri "di approfondimento", cioè quelli che secondo l'Ispra devono essere attentamente verificati per stabilire oltre ai criteri di esclusione anche i requisiti vincolanti, c'è al contrario la «disponibilità di vie di comunicazione primarie e infrastrutture di trasporto», in quanto – viene spiegato con altrettanta sicurezza – «la presenza di infrastrutture (quali ad esempio autostrade, strade extra urbane principali e ferrovie fondamentali e complementari, ecc...) consente di raggiungere più agevolmente il deposito, minimizzando i rischi connessi ad eventuali incidenti durante il trasporto dei rifiuti radioattivi». 
Insomma, servono strade abbastanza lontane ma abbastanza a disposizione. Un bel rebus.


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