Quartieri di Roma come Scampia
Bimbi vedetta contro la polizia, armi, spacciatori, fortini inaccessibili Per i giudici San Basilio è zona franca, «sottratta anche ai poteri dello Stato»
di Vincenzo Imperitura, 20 mag 2014
Una «zona franca, percepita dalla pubblica opinione come, di
fatto, sottratta ai poteri di controllo dello Stato»: sembra la descrizione di
un quartiere malfamato di New York o di una favela di qualche megalopoli
sudamericana e invece si tratta del quadrilatero compreso tra le vie Corinaldo,
Gigliotti, Montegiorgio e Pievebovigliana, a San Basilio, quadrante nordest
della Capitale.
Le motivazioni della sentenza con cui i giudici di primo grado
hanno condannato a quasi 30 anni di carcere i 17 imputati dell’operazione
«Ombre» - l’indagine dei carabinieri che nell’inverno del 2013 smantellò una
rete di spacciatori che agivano attorno alle palazzine popolari - sono un salto
nel buio della periferia più difficile di Roma.
Un quartiere, quello di San
Basilio appunto, preso in ostaggio da una banda di trafficanti (alcuni
incensurati, altri, all’epoca degli arresti, ancora minorenni) che, forte della
disposizione stessa dei palazzoni popolari, aveva tirato su un commercio di
droga (principalmente cocaina ma andavano forte anche l’hashish e la marijuana)
attivo 24 ore su 24 e che riusciva a lavorare a pieno regime, anche sotto le
nevicate del febbraio 2012 che bloccarono la Capitale per una settimana.
IL SISTEMA
«Il sodalizio -scrivono i giudici -. operava attraverso
schemi organizzativi ben consolidati»: da una parte c’erano quelli che
prelevavano la droga dai nascondigli mimetizzati nei giardinetti attorno ai
caseggiati, dall’altra c’erano le «sentinelle vigilanti strategicamente
appostate in prossimità» della zona «pronte a segnalare la presenza o
l’avvicinamento di pattuglie, dandone, nel caso, tempestiva comunicazione con
l’uso di parole convenzionali rappresentative dell’imminente pericolo».
Una
situazione sul «modello Scampia» «che delinea una tipica zona franca, deputata
alla conduzione di un vero e proprio mercato permanente di cocaina, fonte
costante di approvvigionamento per i consumatori provenienti dalle zone più
svariate di Roma e del circondario, gestito da soggetti agenti nella sicura
consapevolezza dell’impunità loro assicurata dal sostanziale controllo sul
territorio». Un controllo attuato grazie a una rete capillare di vedette poste
all’ingresso del reticolato di vie nel cuore di San Basilio e che, annotano
amaramente i magistrati «ha dato luogo a una vera e propria occupazione militare
del territorio».
Un’organizzazione così strutturata e capillare che le stesse
forze dell’ordine erano riuscite a sorprendere, nell’ambito di diverse
operazioni, gli imputati con in tasca solo una manciata di dosi e qualche
spicciolo, visto che il grosso (sia per la droga sia per il denaro che la
vendita garantiva) veniva puntualmente prelevato dalle staffette e riposto
lontano dalle zone di spaccio in strada. Erano così padroni del proprio
territorio che gli inquirenti sono stati costretti a nascondere una serie di
telecamere per documentare, non visti, i movimenti di pusher, vedette
consumatori e pezzi grossi.
L’organizzazione aveva studiato a fondo la
situazione ambientale - tanto da riorganizzarsi immediatamente in un caseggiato
popolare adiacente dopo uno «sgombro» effettuato dalle forze dell’ordine - e
aveva organizzato lo spaccio «con ripetitività assimilabile a una trama
teatrale, l’attivazione e il divenire (bonifica e pulizia della piazza,
occupazione delle postazioni strategiche, avvio delle attività di spaccio,
affluenza degli inquirenti, intervento delle forze dell’ordine, segnalazioni di
pericolo, in atto e cessato, prelevamento e deposito della sostanza
stupefacente)».
LA CATENA DI MONTAGGIO
L’organizzazione che aveva monopolizzato il mercato della
polvere bianca sotto le torri di San Basilio aveva Manolo Pupillo come capo
indiscusso e, appena sotto di lui, un ruolo di «prestigio» era riservato a
Emanuele Selva. I due, scrivono ancora i giudici «espletano funzioni decisionali
e di coordinamento nei confronti di una pluralità di soggetti inseriti in una
«pianta organica» rimasta, nel tempo, sostanzialmente invariata quanto alla
individuazione delle postazioni e delle peculiari mansioni proprie di ciascun
ruolo (custode, vedetta statica, vedetta dinamica, esattore, spacciatore,
procacciatore ecc)».
Nella sostanza, una volta messa in moto, la macchina era
perfettamente in grado di camminare da sola, tanto che «l’apparato organizzativo
e le strutture logistiche si delineano, dunque, come entità connotate da
stabilità granitica, dotate di autonoma esistenza e capaci di sopravvivere al
variare delle figure apicali e di quelle addette alla manovalanza, quasi si
trattasse di beni stabilmente conferiti in azienda». Una struttura che,
nonostante le modiche quantità dei reati fine (i «pezzi» venduti al singolo
consumatore) individuati dalle forze dell’ordine riusciva a garantire
l’assistenza legale per i sodali che finivano in arresto e che pagava una retta
a quelli che finivano «dentro».
Un’organizzazione che riusciva a lavorare in
tutte le condizioni climatiche, anche sotto la neve più fitta, come nella prima
metà di febbraio del 2012, quando alcuni membri della banda avevano deciso di
non scendere in strada a «lavorare», e solo l’intervento di Pupillo - come in
una rivisitazione di un romanzo di Dickens - era riuscita a riportare tutti al
proprio posto, a vendere neve sotto la neve.
E se sono in due a tirare le file
dello spaccio a cielo aperto, gli altri (molti dei quali giovanissimi e appena
maggiorenni) partecipano stabilmente al sodalizio «con piena condivisione della
trama organizzativa e degli obiettivi, apportando un contributo significativo ed
irrinunciabile per il proficuo svolgimento delle attività quotidiane di spaccio,
quasi assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato».
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