lunedì 2 giugno 2014

Un quartiere degradato di Roma: verrà recuperarlo alla legalità?


Quartieri di Roma come Scampia

Bimbi vedetta contro la polizia, armi, spacciatori, fortini inaccessibili Per i giudici San Basilio è zona franca, «sottratta anche ai poteri dello Stato»

di Vincenzo Imperitura, 20 mag 2014


Una «zona franca, percepita dalla pubblica opinione come, di fatto, sottratta ai poteri di controllo dello Stato»: sembra la descrizione di un quartiere malfamato di New York o di una favela di qualche megalopoli sudamericana e invece si tratta del quadrilatero compreso tra le vie Corinaldo, Gigliotti, Montegiorgio e Pievebovigliana, a San Basilio, quadrante nordest della Capitale. 

Le motivazioni della sentenza con cui i giudici di primo grado hanno condannato a quasi 30 anni di carcere i 17 imputati dell’operazione «Ombre» - l’indagine dei carabinieri che nell’inverno del 2013 smantellò una rete di spacciatori che agivano attorno alle palazzine popolari - sono un salto nel buio della periferia più difficile di Roma. 

Un quartiere, quello di San Basilio appunto, preso in ostaggio da una banda di trafficanti (alcuni incensurati, altri, all’epoca degli arresti, ancora minorenni) che, forte della disposizione stessa dei palazzoni popolari, aveva tirato su un commercio di droga (principalmente cocaina ma andavano forte anche l’hashish e la marijuana) attivo 24 ore su 24 e che riusciva a lavorare a pieno regime, anche sotto le nevicate del febbraio 2012 che bloccarono la Capitale per una settimana.

IL SISTEMA

«Il sodalizio -scrivono i giudici -. operava attraverso schemi organizzativi ben consolidati»: da una parte c’erano quelli che prelevavano la droga dai nascondigli mimetizzati nei giardinetti attorno ai caseggiati, dall’altra c’erano le «sentinelle vigilanti strategicamente appostate in prossimità» della zona «pronte a segnalare la presenza o l’avvicinamento di pattuglie, dandone, nel caso, tempestiva comunicazione con l’uso di parole convenzionali rappresentative dell’imminente pericolo». 

Una situazione sul «modello Scampia» «che delinea una tipica zona franca, deputata alla conduzione di un vero e proprio mercato permanente di cocaina, fonte costante di approvvigionamento per i consumatori provenienti dalle zone più svariate di Roma e del circondario, gestito da soggetti agenti nella sicura consapevolezza dell’impunità loro assicurata dal sostanziale controllo sul territorio». Un controllo attuato grazie a una rete capillare di vedette poste all’ingresso del reticolato di vie nel cuore di San Basilio e che, annotano amaramente i magistrati «ha dato luogo a una vera e propria occupazione militare del territorio». 

Un’organizzazione così strutturata e capillare che le stesse forze dell’ordine erano riuscite a sorprendere, nell’ambito di diverse operazioni, gli imputati con in tasca solo una manciata di dosi e qualche spicciolo, visto che il grosso (sia per la droga sia per il denaro che la vendita garantiva) veniva puntualmente prelevato dalle staffette e riposto lontano dalle zone di spaccio in strada. Erano così padroni del proprio territorio che gli inquirenti sono stati costretti a nascondere una serie di telecamere per documentare, non visti, i movimenti di pusher, vedette consumatori e pezzi grossi. 

L’organizzazione aveva studiato a fondo la situazione ambientale - tanto da riorganizzarsi immediatamente in un caseggiato popolare adiacente dopo uno «sgombro» effettuato dalle forze dell’ordine - e aveva organizzato lo spaccio «con ripetitività assimilabile a una trama teatrale, l’attivazione e il divenire (bonifica e pulizia della piazza, occupazione delle postazioni strategiche, avvio delle attività di spaccio, affluenza degli inquirenti, intervento delle forze dell’ordine, segnalazioni di pericolo, in atto e cessato, prelevamento e deposito della sostanza stupefacente)».

LA CATENA DI MONTAGGIO

L’organizzazione che aveva monopolizzato il mercato della polvere bianca sotto le torri di San Basilio aveva Manolo Pupillo come capo indiscusso e, appena sotto di lui, un ruolo di «prestigio» era riservato a Emanuele Selva. I due, scrivono ancora i giudici «espletano funzioni decisionali e di coordinamento nei confronti di una pluralità di soggetti inseriti in una «pianta organica» rimasta, nel tempo, sostanzialmente invariata quanto alla individuazione delle postazioni e delle peculiari mansioni proprie di ciascun ruolo (custode, vedetta statica, vedetta dinamica, esattore, spacciatore, procacciatore ecc)». 

Nella sostanza, una volta messa in moto, la macchina era perfettamente in grado di camminare da sola, tanto che «l’apparato organizzativo e le strutture logistiche si delineano, dunque, come entità connotate da stabilità granitica, dotate di autonoma esistenza e capaci di sopravvivere al variare delle figure apicali e di quelle addette alla manovalanza, quasi si trattasse di beni stabilmente conferiti in azienda». Una struttura che, nonostante le modiche quantità dei reati fine (i «pezzi» venduti al singolo consumatore) individuati dalle forze dell’ordine riusciva a garantire l’assistenza legale per i sodali che finivano in arresto e che pagava una retta a quelli che finivano «dentro». 

Un’organizzazione che riusciva a lavorare in tutte le condizioni climatiche, anche sotto la neve più fitta, come nella prima metà di febbraio del 2012, quando alcuni membri della banda avevano deciso di non scendere in strada a «lavorare», e solo l’intervento di Pupillo - come in una rivisitazione di un romanzo di Dickens - era riuscita a riportare tutti al proprio posto, a vendere neve sotto la neve. 

E se sono in due a tirare le file dello spaccio a cielo aperto, gli altri (molti dei quali giovanissimi e appena maggiorenni) partecipano stabilmente al sodalizio «con piena condivisione della trama organizzativa e degli obiettivi, apportando un contributo significativo ed irrinunciabile per il proficuo svolgimento delle attività quotidiane di spaccio, quasi assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato».

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