Edifici trasparenti per farci entrare l’aria di New York
L’architetto laureato ad honorem dalla Columbia: “La trasformazione è la
cultura di questa città. Io lavoro sui cambiamenti, non li provoco ma li
celebro”
Di Paolo Mastrolilli, 21 mag 2014
L’umanesimo. La continuità con quella cultura che in fondo noi italiani
abbiamo inventato, e dovremmo esaltare e difendere, nonostante i problemi del
presente. Così Renzo Piano si spiega il fatto che oggi la Columbia University di
New York gli conferirà il titolo onorario di «Doctor of Humane Letters», durante
la cerimonia del Commencement per i laureati del 2014.
Come è nato questo riconoscimento?
«Il presidente della Columbia, Lee Bollinger, mi aveva chiamato una settimana
dopo la sua nomina, per progettare la costruzione del nuovo campus a West
Harlem. Così è cominciata la nostra collaborazione».
È una delle opere più importanti in corso a New York. Come si è confrontato
con la tradizione architettonica dell’Ivy League?
«I campus originali venivano pensati come fortezze, sul modello neoclassico,
neogotico, neoromanico o rinascimentale. Lo spazio chiuso dalle porte, protetto,
serviva a produrre un effetto di affidabilità. Ora stiamo facendo l’opposto. Un
campus aperto, permeabile, trasparente, che ha uno scambio con la città invece
di impossessarsi di uno spazio in maniera egoistica e chiusa. Oggi la
legittimità, l’affidabilità, la dignità e la serietà delle università non sta
più nel modello neoclassico, ma nella loro urbanità di matrice direi europea.
Ecco, forse qui sta il motivo del mio dottorato. Quando uno ha una certa età, i
premi arrivano: basta respirare. In questo caso, però, credo ci sia il
riconoscimento dell’umanesimo del progetto».
Uno degli edifici che lei ha disegnato ospiterà il nuovo Mind Brain Behavior
Institute. Come l’ha influenzata il fatto di lavorare su una struttura dedicata
allo studio del cervello?
«È un grande progetto in corso ormai da sette anni, guidato da due premi
Nobel come Eric Kandel e Richard Axel. Studierà il cervello a livello
molecolare, oltre che psicologico e psichiatrico: è una macchina formidabile, ma
poco conosciuta. Indagheranno la sua struttura elettrica, meccanica, idraulica.
Sul piano architettonico si trattava di pensare un edificio adatto insieme al
lavoro di équipe e agli spazi singoli di ricerca per 900 studiosi. Un edificio
trasparente, che interagisca con la città. Al piano terra infatti c’è anche un
ristorante, e centri studi aperti al pubblico. West Harlem poi è il quartiere
dove fu filmato West Side Story, dove sono nate la
street art e la street
music, e bisognava tenerne conto».
E sul piano culturale cosa ha significato per lei?
«Mi ha dato la sensazione di tornare all’inizio del Seicento, quando i medici
a Padova esploravano le viscere per capire come era fatto il corpo umano. In
fondo del cervello sappiamo ancora poco, e quindi questa è una iniziativa
pionieristica. Forse è anche il motivo per cui hanno pensato a me. L’Italia è
sempre vista come il Paese dove questo genere di studi sono fioriti: noi
rappresentiamo la continuità con questa cultura umanistica che ci appartiene
ancora».
Lei sta costruendo anche il nuovo Whitney Museum, che si sposta dall’Upper
East Side a Chelsea, proprio davanti all’High Line che è diventata forse la
passeggiata più popolare di Manhattan.
«Ma è un ritorno a casa, in realtà, perché il Whitney era nato proprio a
Chelsea, come luogo di incontro per gli artisti nella zona industriale e operosa
della città».
Nella recensione che il New York Times pubblicò
sulla sua nuova sede progettata da lei, c’era scritto che dava insieme un senso
di nostalgia per il passato, e incertezza per il futuro del giornalismo
sconvolto dalla rivoluzione digitale.
«L’architetto lavora sempre sui cambiamenti. Non li provoca, ma li celebra.
Quando progettai il Beaubourg a Parigi, non fui io a cambiare il rapporto tra il
museo e il pubblico: quel rapporto doveva cambiare, e noi lo registrammo. Tutto
ciò che ho fatto a New York è trasformazione: la Columbia, il Whitney, la Morgan
Library, il New York Times. Questo edificio, ad
esempio, doveva interpretare il mutamento del giornalismo ancora in corso, per
aiutarlo a diventare il quotidiano che è oggi. La trasformazione è la cultura di
New York. È un lavoro complicato, ed è naturale che non tutti siano sempre
contenti».
In Italia è riuscito a realizzare opere importanti, come l’Auditorium a Roma,
ma anche strutture oggi in degrado, come lo stadio di Bari. Perché queste
contraddizioni?
«Ci vorrebbe un libro, per spiegare. È un Paese complicato. A Bari, per
cominciare, non si doveva costruire uno stadio così grande. Lo avevo anche
detto. Però all’epoca c’erano i Mondiali e bisognava farlo grande. Poi queste
opere sono sempre legate anche ai successi delle squadre di calcio. In generale
il monumentalismo, la grandeur, portano sempre
problemi. Bisogna pensarci prima».
Perché l’Italia è un Paese complicato?
«Molte ragioni che conoscete. La burocrazia lenta, difficile, inaffidabile.
Non ce l’ho con nessuno, ma è così. Poi la politica, con i suoi cambiamenti,
dove chi subentra si diverte sempre a fermare quello che hanno fatto i
predecessori. Ci sono tante ragioni. Detto questo, però, alla fine le cose si
fanno, seppur con fatica. E l’Italia resta sempre il Paese dove mi piacerebbe di
più lavorare. C’è una passione, una capacità, un talento naturale per costruire.
Anche quando sono all’estero, faccio spesso appello alle imprese e agli
artigiani italiani. C’è una italianità che non è nazionalismo, ma l’abilità
riconosciuta a fare bene le cose».
Ci affossiamo troppo da soli?
«Esistono problemi che conosciamo tutti. Però ci sono anche enormi
potenzialità e capacità vere, che è giusto iniziare a riconoscere».
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