Riusciremo a trasformare la débâcle brasiliana in occasione di riscatto del
calcio italiano?
La fiammella di questa speranza sembra alimentata dalla cabala:
in almeno due altre occasioni siamo usciti dal mondiale al primo turno (il 1966
e il 1974) ma ai giochi successivi abbiamo primeggiato.
I tempi sono però
profondamente cambiati.
Il calcio di allora aveva una dimensione prevalentemente sportiva e le
soluzioni erano solo tecniche, mentre oggi è un grande business globale, in cui
l'Italia fatica seriamente a tenere il passo degli altri grandi. Se il calcio è
una metafora del sistema Paese, l'insuccesso brasiliano è uno specchio di
difficoltà ben più profonde. Intendiamoci: non è che altrove siano solo rose e
fiori.
L'Economist ha dedicato ai problemi del calcio una copertina con lo
slogan: "un gioco bellissimo, un business orrendo". Ovviamente nel nostro caso,
il primo termine si riferisce alla bellezza del gioco in sé, non certo alla
qualità delle partite giocate dall'Italia in questo mondiale e neppure in quelle
della stragrande maggioranza delle gare nel nostro campionato maggiore.
Qui
sta il primo nodo che l'Italia deve affrontare. Sul volo anticipato di ritorno
in Europa siamo in buona compagnia, ma Spagna, Inghilterra e Portogallo possono
vantare campionati di buon livello, stadi pieni e società gestite con
oculatezza, almeno nei limiti in cui questo sostantivo viene interpretato nel
mondo del pallone. Se aggiungiamo poi la Germania, che sembra destinata a fare
molta strada in questo mondiale, abbiamo un ulteriore esempio di modelli cui
ispirarsi.
In una logica economica, le società di calcio italiane sono lo
specchio deformante di tutti i problemi. Perché sono troppe, perché hanno legami
pericolosi, perché non sono abbastanza attente all'equilibrio economico. Sono
innanzitutto troppe perché le società delle serie minori hanno lo stesso modello
giuridico di quelle maggiori. E così l'Italia ha più società di calcio con fini
di lucro delle tre grandi leghe Usa messe assieme.
La separazione, anche nei modelli societari, fra business e sport è invece la
prima condizione per alimentare la qualità delle serie minori ed evitare che
queste siano lo specchio (quasi sempre in peggio) dei mali dei livelli
superiori. Hanno poi legami pericolosi, perché molte (troppe) hanno rapporti
stretti con la malavita organizzata o semplicemente con frange di ultrà
violenti, come ha denunciato Raffaele Cantone in un libro di un paio di anni fa.
Affrontando questo problema solo nell'ottica dell'ordine pubblico, si è arrivati
all'assurdo che le persone per bene devono fare code estenuanti per introdurre
allo stadio pericolosi bimbi di sei anni, mentre sugli spalti esplodono bombe
carta e ci si accoltella dentro e fuori. Non è forse un caso se il giorno più
brutto della nazionale coincide con la morte di un innocente che aveva l'unica
colpa di voler vedere una partita di calcio.
Come insegna il caso inglese degli anni Ottanta, i primi controllori della
violenza sono le società, se non altro come contropartita dei milioni di euro
che gravano ogni domenica sul contribuente per un servizio di ordine pubblico
degno di una sommossa nazionale. E poi c'è il problema della gestione economica
delle società, dunque dell'equilibrio fra costi e ricavi. I secondi sono esplosi
grazie agli introiti televisivi.
L'Economist stima che le prime venti società
mondiali si spartiscono una torta di 5,4 miliardi di euro, la maggior parte dei
quali assicurati dai diritti televisivi.
Ma l'Italia, proprio per la caduta
della qualità dello spettacolo offerto, è sempre più in affanno per mantenere la
sua quota nel mercato globale ed è sempre più lontana dalla Premier inglese che
raggiunge 643 milioni di famiglie. Ancora più che in altri paesi la pioggia
d'oro dei diritti televisivi è stata sperperata in spese crescenti, quasi sempre
per riconoscere alti ingaggi a giocatori di terzo livello, che appaiono come
meteore nei nostri stadi, lasciando penosi ricordi nei tifosi e buchi grandi
come sbadigli nei bilanci. Come ricordava ieri su questo giornale Marco
Bellinazzo, le società italiane hanno un rapporto fra costi dei giocatori ed
entrate totali di quasi tre quarti, contro poco più della metà di quelle
tedesche. Quello sì è un modello da guardare attentamente e da imitare
soprattutto perché spesso (vedi Bayern Monaco) l'equilibrio economico è andato
di pari passo con l'attenzione per i vivai e per i giocatori nazionali.
Tutto questo poco o nulla ha a che vedere con la costruzione di nuovi stadi
che invece sembra essere considerata da molti dirigenti come la soluzione
taumaturgica di tutti i mali. Ammesso che sia necessario, si deve trattare del
punto di arrivo di un processo di risanamento ad ampio raggio, più che del punto
di partenza. Non mancano quindi né le diagnosi dei problemi né i modelli
stranieri da imitare. Riuscirà il mondo del calcio italiano a fare tesoro delle
prime e a cercare di imitare i secondi? A livello di società e di organi
federali, i segnali di rinnovamento (a cominciare da quello delle persone che
siedono sulle principali poltrone) sono finora assai poco incoraggianti.
Ma è
ormai chiaro che per il calcio italiano l'epoca d'oro dei ricavi crescenti è
finita ed è stata in parte sperperata.
O riusciamo a rimanere al passo nel
mercato mondiale, oppure rischiamo una spirale negativa fra ricavi e qualità del
gioco di cui faranno le spese tutti i club, prima ancora della nazionale. Il
processo di rinnovamento deve essere immediato e profondo, nell'interesse del
calcio e dei milioni di veri appassionati, sempre più preoccupati di vedere
rovinato, per dirla nei termini raffinati di Javier Marías, il "rito domenicale
del ritorno alla fanciullezza".
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