sabato 28 giugno 2014

Mondiali di calcio: eliminati al primo turno (come nel 1966 e nel 1974)... Un segno dei tempi?



di Marco Onado, 26 giu 2014


Riusciremo a trasformare la débâcle brasiliana in occasione di riscatto del calcio italiano? 
La fiammella di questa speranza sembra alimentata dalla cabala: in almeno due altre occasioni siamo usciti dal mondiale al primo turno (il 1966 e il 1974) ma ai giochi successivi abbiamo primeggiato. 
I tempi sono però profondamente cambiati.


Il calcio di allora aveva una dimensione prevalentemente sportiva e le soluzioni erano solo tecniche, mentre oggi è un grande business globale, in cui l'Italia fatica seriamente a tenere il passo degli altri grandi. Se il calcio è una metafora del sistema Paese, l'insuccesso brasiliano è uno specchio di difficoltà ben più profonde. Intendiamoci: non è che altrove siano solo rose e fiori. 

L'Economist ha dedicato ai problemi del calcio una copertina con lo slogan: "un gioco bellissimo, un business orrendo". Ovviamente nel nostro caso, il primo termine si riferisce alla bellezza del gioco in sé, non certo alla qualità delle partite giocate dall'Italia in questo mondiale e neppure in quelle della stragrande maggioranza delle gare nel nostro campionato maggiore. 
Qui sta il primo nodo che l'Italia deve affrontare. Sul volo anticipato di ritorno in Europa siamo in buona compagnia, ma Spagna, Inghilterra e Portogallo possono vantare campionati di buon livello, stadi pieni e società gestite con oculatezza, almeno nei limiti in cui questo sostantivo viene interpretato nel mondo del pallone. Se aggiungiamo poi la Germania, che sembra destinata a fare molta strada in questo mondiale, abbiamo un ulteriore esempio di modelli cui ispirarsi. 

In una logica economica, le società di calcio italiane sono lo specchio deformante di tutti i problemi. Perché sono troppe, perché hanno legami pericolosi, perché non sono abbastanza attente all'equilibrio economico. Sono innanzitutto troppe perché le società delle serie minori hanno lo stesso modello giuridico di quelle maggiori. E così l'Italia ha più società di calcio con fini di lucro delle tre grandi leghe Usa messe assieme.

La separazione, anche nei modelli societari, fra business e sport è invece la prima condizione per alimentare la qualità delle serie minori ed evitare che queste siano lo specchio (quasi sempre in peggio) dei mali dei livelli superiori. Hanno poi legami pericolosi, perché molte (troppe) hanno rapporti stretti con la malavita organizzata o semplicemente con frange di ultrà violenti, come ha denunciato Raffaele Cantone in un libro di un paio di anni fa. Affrontando questo problema solo nell'ottica dell'ordine pubblico, si è arrivati all'assurdo che le persone per bene devono fare code estenuanti per introdurre allo stadio pericolosi bimbi di sei anni, mentre sugli spalti esplodono bombe carta e ci si accoltella dentro e fuori. Non è forse un caso se il giorno più brutto della nazionale coincide con la morte di un innocente che aveva l'unica colpa di voler vedere una partita di calcio.
Come insegna il caso inglese degli anni Ottanta, i primi controllori della violenza sono le società, se non altro come contropartita dei milioni di euro che gravano ogni domenica sul contribuente per un servizio di ordine pubblico degno di una sommossa nazionale. E poi c'è il problema della gestione economica delle società, dunque dell'equilibrio fra costi e ricavi. I secondi sono esplosi grazie agli introiti televisivi. 

L'Economist stima che le prime venti società mondiali si spartiscono una torta di 5,4 miliardi di euro, la maggior parte dei quali assicurati dai diritti televisivi. 
Ma l'Italia, proprio per la caduta della qualità dello spettacolo offerto, è sempre più in affanno per mantenere la sua quota nel mercato globale ed è sempre più lontana dalla Premier inglese che raggiunge 643 milioni di famiglie. Ancora più che in altri paesi la pioggia d'oro dei diritti televisivi è stata sperperata in spese crescenti, quasi sempre per riconoscere alti ingaggi a giocatori di terzo livello, che appaiono come meteore nei nostri stadi, lasciando penosi ricordi nei tifosi e buchi grandi come sbadigli nei bilanci. Come ricordava ieri su questo giornale Marco Bellinazzo, le società italiane hanno un rapporto fra costi dei giocatori ed entrate totali di quasi tre quarti, contro poco più della metà di quelle tedesche. Quello sì è un modello da guardare attentamente e da imitare soprattutto perché spesso (vedi Bayern Monaco) l'equilibrio economico è andato di pari passo con l'attenzione per i vivai e per i giocatori nazionali.
Tutto questo poco o nulla ha a che vedere con la costruzione di nuovi stadi che invece sembra essere considerata da molti dirigenti come la soluzione taumaturgica di tutti i mali. Ammesso che sia necessario, si deve trattare del punto di arrivo di un processo di risanamento ad ampio raggio, più che del punto di partenza. Non mancano quindi né le diagnosi dei problemi né i modelli stranieri da imitare. Riuscirà il mondo del calcio italiano a fare tesoro delle prime e a cercare di imitare i secondi? A livello di società e di organi federali, i segnali di rinnovamento (a cominciare da quello delle persone che siedono sulle principali poltrone) sono finora assai poco incoraggianti. 

Ma è ormai chiaro che per il calcio italiano l'epoca d'oro dei ricavi crescenti è finita ed è stata in parte sperperata. 
O riusciamo a rimanere al passo nel mercato mondiale, oppure rischiamo una spirale negativa fra ricavi e qualità del gioco di cui faranno le spese tutti i club, prima ancora della nazionale. Il processo di rinnovamento deve essere immediato e profondo, nell'interesse del calcio e dei milioni di veri appassionati, sempre più preoccupati di vedere rovinato, per dirla nei termini raffinati di Javier Marías, il "rito domenicale del ritorno alla fanciullezza".

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