sabato 28 giugno 2014

Il famoso "test del DNA": di cosa si tratta, in realtà?

Dal Corriere

Yara, test Dna: tutti ne parlano, pochi sanno cos’è e come si esegue

In realtà si tratta di più analisi eseguite sul patrimonio genetico.
Sviluppato in Inghilterra nella seconda metà degli anni Ottanta, se eseguito bene ha margini di errore minimi. 
Ma dipende dalla quantità di Dna a disposizione

di Manuela Campanelli, 24 giu 2014

Il caso Yara ha riacceso i riflettori sul test del Dna, che tutti ormai pronunciano quasi automaticamente per indicare una prova regina in grado di trovare un’incontestabile uguaglianza tra due profili genetici messi a confronto. Ma che cos’è in realtà questo esame capace d’inchiodare un presunto omicida, di riconoscere il papà o la mamma di un bambino, di individuare un portatore di una malattia genetica, nonché di stabilire i discendenti di una popolazione o di dare un nome a un reperto antico?
Tutte le nostre cellule hanno lo stesso Dna
«È un’analisi che caratterizza principalmente la sequenza delle basi azotate (adenina, timina, guanina, citosina) del Dna, importanti per distinguere un individuo dall’altro», spiega Fulvio Cruciani, professore di genetica umana e forense presso il dipartimento di biologia e biotecnologia Charles Darwin dell’Università La Sapienza di Roma. «Tutte le nostre cellule hanno infatti lo stesso Dna, cioè lo stesso corredo genomico, distribuito in 46 cromosomi uguali a due a due (tranne i due cromosomi sessuali X e Y). Se tuttavia confrontiamo il Dna di uno dei cromosomi con quello di un’altra persona, notiamo che c’è una differenza in media ogni mille basi, per esempio una timina al posto di un’adenina, e il grado di diversità è via via inferiore quanto più i due individui considerati sono imparentati tra loro».

Non è uno solo
Nonostante lo si pronunci sempre al singolare, sarebbe più corretto declinarlo al plurale. I test del Dna sono infatti tanti e diversi a seconda del quesito a cui sono chiamati a rispondere. Nella genetica forense si usa oggi principalmente un tipo di test che va a indagare i cosidetti microsatelliti, corte sequenze di Dna composte da una a otto basi ripetute in tandem per un piccolo numero di volte. Esse costituiscono un motivo semplice che, sebbene occupi la stessa posizione sul Dna di tutti gli esseri umani, differisce da un individuo all’altro per il numero delle sue ripetizioni determinando un’impronta digitale univoca. Nella genetica medica si impiegano altri test del Dna eseguiti con l’intento di studiare un gene e identificare una particolare mutazione responsabile di una determinata malattia genetica. E nella genetica di popolazione si utilizzano esami del Dna ancora diversi, capaci ad esempio d’indagare marcatori d’elezione posti sul cromosoma Y e sul genoma mitocondriale trasmessi rispettivamente per via paterna e materna che, scomponendo la variabilità genetica della popolazione in due componenti, quella maschile e quella femminile, permettono di ricostruire più facilmente la storia di una popolazione.
Come si esegue
L’evoluzione dei test del Dna è strettamente legata alla messa a punto di una tecnica di biologia molecolare, la Pcr (Polymerase Chain Reaction), introdotta nella seconda metà degli anni Ottanta, in grado di amplificare il Dna. «Questo metodo inizia con l’estrazione del Dna dal materiale organico di partenza, vale a dire dal nucleo delle cellule prelevate da sperma, bulbo dei capelli, urine, sangue, saliva, ma anche da qualsiasi parte del corpo e addirittura dalle impronte lasciate su un oggetto, il cosiddetto touch Dna; prosegue con la denaturazione del Dna in una soluzione tampone contenente primer, corte sequenze che riconoscono regioni specifiche del Dna da analizzare, alle quali si aggiungono basi azotate con un enzima chiamato polimerasi. Questi passaggi vengono ripetuti per 20-30 cicli, raddoppiando il Dna ogni volta: da quantità minime di Dna (nanogrammi), amplificate decine o centinaia di migliaia di volte, si ottengono pertanto microgrammi di Dna», illustra Cruciani cercando di rendere semplice un procedimento in realtà molto complesso.
I molteplici ruoli
A questo punto il Dna estratto da una traccia organica lasciata sul corpo di una vittima, da un fossile, da un campione da indagare a scopi diagnostici, diventa maneggiabile in laboratorio. «Piccole quantità di Dna amplificato vengono prelevate dalla soluzione Pcr e analizzate con metodiche differenti, quali l’elettroforesi (separa le molecole di Dna in base alla loro lunghezza), il sequenziamento diretto delle basi, la spettrometria di massa (distingue le molecole di Dna in base al loro peso) o utilizzando enzimi di restrizione (tagliano le molecole del Dnain punti precisi)», dice Cruciani. L’obiettivo è quello di distinguere filamenti di Dna che differiscono tra loro anche di una sola base azotata e di confrontarli con quelli di individui diversi per capire per esempio se il Dna di un reperto coincide con quello di un individuo sospettato (genetica forense), come una mutazione si distribuisca in un gruppo d’individui (genetica di popolazione) o se il Dna di alcuni geni differisca o meno da sequenze di riferimento provenienti da un database pubblico (genetica medica).
Il margine d’errore
Quanto è affidabile questo test in grado di mettere delle bandierine, cioè dei punti di riferimento sulla storia di un individuo o su quella di un’intera popolazione? «Il test del Dna dà un risultato assolutamente attendibile se viene eseguito in modo corretto», sottolinea Cruciani. «Un problema tecnico può tuttavia insorgere quando si ha a che fare con Dna degradato o recuperato in tracce minime: in questi casi la sua precisione diminuisce».
Diffusione lenta
Messo a punto nella prima metà degli anni Ottanta, questo test non ha tuttavia avuto subito una grande diffusione e non ha goduto neppure di un particolare interesse nel contesto della medicina legale. La sua considerazione cambiò quando nel 1985 lo scienziato Alec Jeffreys scoprì nel suo laboratorio dell’Università di Leicester nel Regno Unito i minisatelliti, cioè unità di Dna contenenti da dieci a centinaia di basi che differivano nel modo in cui si ripetevano nei vari individui: proprio come le impronte digitali, erano capaci di delineare un profilo genetico unico per ciascun individuo.
Una storia intrigante
Da test sperimentale che girava nello stretto ambito dei laboratori, agganciò ben presto l’applicazione pratica. Il suo primo debutto nella genetica forense risale al 1986 e curiosamente fu usato non per incolpare un presunto maniaco ma per discolpare Richard Buckland, un ragazzo inglese che si era autoaccusato di aver commesso due stupri a due anni di distanza l’uno dall’altro: il test del Dna rivelò che era innocente. Per risolvere i due casi, che all’epoca avevano coinvolto due quindicenni ed erano avvenuti tra l’altro nella stessa zona dove lavorava il professor Jeffreys, si dovette organizzare il primo screening genetico di massa: quello eseguito per indagare il caso di Yara non è stato dunque il primo in assoluto. Il test del Dna fu eseguito a 5 mila individui nel Leicestershire con gruppo sanguigno A, lo stesso che era stato ritrovato nelle tracce di liquido seminale lasciato sul corpo delle vittime: purtroppo nessuno dei profili genetici trovati corrispondeva a quello dell’assassino.
L’inizio dell’era del Dna fingerprinting
Nel 1987 si venne a sapere per puro caso che una persona che abitava nel Leicestershire aveva chiesto a un amico di sostituirlo nello screening di massa. Invitato a eseguire comunque il test del Dna, si rivelò essere l’autore dei due delitti: il suo Dna coincideva con quello delle tracce organiche trovate sui corpi delle vittime. Si chiamava Colin Pitchfork e il suo nome è ormai legato a doppia mandata all’esame a cui è stata riconosciuta da quel momento in poi la capacità di farci risalire al passato e di fotografare un avvenimento accaduto anche molto indietro nel tempo.

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